Daniele Rocchi e David Fabrizi
Duecentotrentanove rintocchi, tanti quanti le vittime del terremoto che alle 3.36 del 24 agosto del 2016, ha distrutto Amatrice, Accumuli e molti altri paesi del Centro Italia. E poi mille e più candele che hanno rischiarato la notte di questo borgo che così ha voluto ricordare, esattamente un anno dopo, uno degli eventi più tragici e dolorosi della sua storia. Nella grande tenda allestita in quel che era il campo sportivo di Amatrice sono risuonati, durante la veglia notturna del 23 e 24 agosto, i nomi e le vite dei caduti, in una sorta di Spoon River amatriciana che ha rievocato un mondo di affetti, di relazioni, di contatti interrotti bruscamente, ma non distrutti. Poi il cammino silenzioso verso il monumento memoriale delle 239 vittime posto al centro del parco “Padre Minozzi”, dove il vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, ha presieduto la liturgia della Parola.
“Rinascere vuol dire tornare diversi”. Una veglia cominciata nella vicina Accumoli con una Via Crucis, celebrata tra le soluzioni abitative provvisorie, ricca di segni particolari: la croce con un Gesù lasciato pendente, quasi disarticolato, perché così trovato sotto le macerie della chiesa di Illica; la stola rossa del vescovo Pompili, a sua volta recuperata dalle macerie della chiesa di Tino, e poi le pietre di quattordici chiese crollate in seguito alle scosse di terremoto, portate da bambini e adolescenti, per segnare la dimensione della fede e della comunità nelle stazioni della Via Crucis. Una “via dell’amore”, ha spiegato il presule, perché “mai come in questo anno abbiamo sperimentato che, di fronte alla morte che ha fatto razzia delle persone più care e delle cose più amate, solo l’amore ci tiene in piedi. Un amore a volte imprevisto e scambiato con una scioltezza a cui non eravamo abituati quando avevamo tutto”. E mentre i giovani posizionavano di volta in volta le pietre delle chiese crollate sulle stazioni della Via Crucis, il vescovo ha avvertito che non spetta a loro rimettere in piedi ciò che è stato.
Alle nuove generazioni “spetta guadare avanti, essere la ragione della rinascita,
perché l’amore è la vita che si trasmette a quelli che ci seguono. Ed è in questo fiume ininterrotto che ci è possibile superare le asperità della morte”. Rinascere, vuol dire tornare diversi rispetto a ciò da cui proveniamo. “Qui dove ora siamo – ha concluso mons. Pompili tra le ‘casette’ – prima c’erano solo spine e sterpaglie. Questa non è la meta, ma una sorta di passaggio intermedio, che tutti ci auguriamo sia il più breve possibile”.
“Non bastano eroi solitari”. Parole che sono riecheggiate anche durante la messa celebrata nel tendone della Croce Rossa, alla presenza del premier Gentiloni, del Commissario alla ricostruzione Vasco Errani, del capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, del sindaco di Roma, Virginia Raggi, e di Amatrice, Sergio Pirozzi. “È passato solo un anno, ma sembra una vita – ha detto mons. Pompili dall’altare davanti ai familiari e amici delle vittime e dei sopravvissuti – secondi interminabili hanno polverizzato legami e ambienti, svelando al contempo un coraggio e una resistenza che non immaginavamo. Fare un bilancio è possibile, ma rischia di essere provvisorio”. L’invito è “non lasciarsi sopraffare dalla rassegnazione” perché “c’è un destino positivo verso cui siamo attratti”.“Per rinascere, però, non basteranno eroi solitari” ha sottolineato mons. Pompili, come ad invitare tutti ad evitare inutili protagonismi. “Una comunità senza eroi è una comunità eroica. È la fuga dalla propria quota di impegno, infatti, che lascia le macerie dove sono; impedisce di ritornare; abbandona i più. Qui non si tratta di attribuire colpe a qualcuno o distribuire medaglie a qualcun altro, ma di fare quello che ci spetta.
Per concludere evangelicamente: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’”.
“Ricostruire l’autentico”. “La ricostruzione sarà vera o falsa. È falsa quando procediamo alla giornata, senza sapere dove andare, al contrario – è vera quando evita frasi fatte – ‘Ricostruiremo com’era, dov’era’ – e chiarisce che
ricostruire è possibile. Ma non l’identico, bensì l’autentico.
Ricostruire vuol dire sempre andare avanti.Anche Amatrice allora rinascerà. Ma è bene che conservi perfino le ferite, perché da quelle le future generazioni apprenderanno che la città, più che dalle sue mura e dalle sue vie, è fatta dall’ingegno e dalla passione di chi la edifica. Non basta nascere, bisogna imparare a rinascere. Questa è la fede.Ma anche la ricostruzione che verrà, se verrà” ha concluso il vescovo tra gli applausi dei fedeli.
“Lo Stato continui a darci una mano”. Prima della benedizione finale mons. Pompili ha voluto rivolgere un ringraziamento alle Istituzioni, “allo Stato, nella persona del presidente della Repubblica che ha inviato una corona, e al presidente del Consiglio dei Ministri la gratitudine per la vicinanza e per l’azione, così come vorrei ringraziare il Commissario straordinario e ancora il capo della Protezione civile presente e precedente e il Governatore della Regione Lazio. Vorrei esprimere questo ringraziamento perché lo Stato nelle sue diverse istituzioni possa continuare a darci una mano. Così come ringrazio esplicitamente i tanti, tantissimi volontari nelle più diverse espressioni che non ci hanno fatto mai mancare la loro vicinanza e anche a loro di continuare a restare insieme”.