“…il regime delle immagini è prepotente, gli spettacoli sfuggono di mano, creano nuovi riti, ma intasano la vita sociale e soprattutto non potranno mai sostituire i progetti e quindi il futuro”.
A distanza di qualche giorno dal terremoto a Ischia e di un anno dal terremoto di Amatrice, che ha trascinato altri paesi nella tragedia, esce questo commento su un quotidiano nazionale.
Si discosta da altri, pur importanti e pertinenti, perché tocca una questione che riguarda la comunicazione su storie di grande sofferenza, come sono quelle del terremoto.
L’opinione pubblica guidata dalle immagini che offrono una conoscenza immediata dei volti e dei fatti rischia spesso di fermarsi a una reazione, profondamente umana, che, da un lato, genera subito stupende espressioni di solidarietà e, dall’altro, fatica a capire la lentezza dei processi con i quali si dichiara di voler ricostruire speranza e futuro.
C’è un susseguirsi di immagini molto efficaci nel comunicare la realtà ma poi si fatica a seguire le fasi del “dopo”.
Una prima immagine provoca una seconda e una terza e così via fino allo spegnersi dello spettacolo per il naturale esaurimento di attrazione mediatica.
Lentamente i riflettori si spengono per riaccendersi alla ricorrenza di un anniversario.
Dopo il tempo delle emozioni sembra mancare il tempo di un’attenzione permanente perché la burocrazia con il suo groviglio inestricabile, non rallenti o impedisca il cammino della speranza.
Su questa lentezza c’è stato il richiamo del vescovo di Rieti, Domenico Pompili, nel giorno della memoria del terremoto che ha colpito anche la sua gente e la sua terra.
Quanto può reggere la leggerezza della solidarietà popolare alla pesantezza di una burocrazia istituzionale che si attarda attorno al cumulo delle macerie?
Quanto ancora lo Stato e le sue Istituzioni possono lasciare spazio a un potere che frena la ricostruzione ma frena anche la crescita della democrazia, sfilaccia la fiducia tra cittadini e politica, dà voce a giudizi sommari?
Alle tracce di umanità dei gesti solidali di singole persone, di associazioni e di comunità potranno affiancarsi più forti segni di umanità da parte dello Stato e delle Istituzioni perché la burocrazia non sia causa della delusione, della rabbia, dell’indifferenza?
Una cascata di domande non per negare ciò che di buono Stato e Istituzioni hanno compiuto e compiono ma perché lo stesso Stato con le sue Istituzioni costringano la burocrazia a rimuovere velocemente le proprie macerie interne perché sia davvero al servizio del bene comune.
Domande che vanno anche oltre, perché la fragilità di uno Stato e delle sue Istituzioni dipende anche dalla fragilità della cultura della bellezza e della responsabilità di sentirsi e di essere cittadini. Persone che vivono la democrazia come stile di vita e non la riducono all’espressione del voto.
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