I giorni del Convegno di spiritualità ortodossa dedicati a Il dono dell’ospitalitàsi sono rivelati un cammino di accoglienza reciproca,
un’esperienza di ospitalità e di misericordia del Signore, di condivisione che vorrei definire “sinodale”…
Abbiamo acquisito, ricevendola gli uni dagli altri, in ascolto della Parola del Signore e nella preghiera condivisa, la consapevolezza che il primo ospite, colui che per primo fa a noi “il dono dell’ospitalità”, è il Signore stesso: è Lui che ci accoglie nella sua creazione, è Lui che ci accoglie alla mensa preparata per noi; è ancora il Signore che ci invita e ci riveste dell’abito nuziale, di quell’abito battesimale che ci fa partecipi della morte e della resurrezione del Signore, ci rende degni di essere commensali alla sua tavola.
Per affrettare il tempo in cui coloro che credono in Gesù il Signore possano riconoscersi insieme nell’unico calice, dobbiamo esercitarci nell’arte del discernimento dei doni che sono nell’altra Chiesa e tradizione cristiana, dobbiamo essere costantemente disponibili alla conversione del cuore, ad acquisire quel cuore ospitale che Dio trovò in Abramo.
Si tratta di un serio lavoro di studio teologico, di ricerca, di lotta contro l’ignoranza e il pregiudizio cui questi incontri ecumenici di spiritualità ortodossa vorrebbero fornire un aiuto, un’occasione di ascolto e di approfondimento, di confronto, di dialogo.
Il Signore è il padrone di casa, ma è anche l’ospite che sempre viene a noi nello straniero, nel povero, nel diseredato, nella sofferenza di milioni di profughi che lasciano la loro terra.
In questa stagione di tragiche migrazioni si tratta di andare al di là di un’accoglienza personale. Cosa possiamo fare, cosa dobbiamo fare, come Chiese, per creare un’ospitalità strutturale in grado di accogliere un afflusso massiccio di rifugiati? È l’appello che è stato rivolto ai partecipanti dal patriarca Theodoros II di Alessandria e di tutta l’Africa, continente provato allo stremo da guerre, carestie, epidemie. Come farvi fronte responsabilmente? Dall’isola di Lesbos, il 16 aprile 2016, papa Francesco, il patriarca ecumenico Bartholomeos e l’arcivescovo di Atene Hieronimos hanno affermato con forza che assumere le nostre responsabilità significa non limitare bensì estendere l’ospitalità. Ma, al contempo, significa anche rispondere alle cause che spingono migliaia di uomini, donne e bambini a lasciare le loro case per cercare condizioni di vita più umane.
Si tratta di un impegno che sembra andare al di là delle nostre forze, eppure i cristiani sono chiamati anche in queste circostanze a rendere conto della speranza che è in loro:
le nostre divisioni sono un ostacolo davanti agli uomini perché possano accedere a questa speranza di vita e di resurrezione che sono aperte a tutti, la possibilità di una terra abitabile nella giustizia, nella pace, nel perdono. È anche la grande sfida per il cristianesimo in un mondo in cui i cristiani ritornano a essere una minoranza perseguitata, ma sempre chiamati alla fedeltà al loro Signore.
Sì, veramente il grande peccato del nostro tempo – e spesso non ce ne rendiamo conto – è il peccato della non accoglienza:
solo accogliendo veramente l’altro come altro, senza rivestirlo della nostra identità, ma lasciando che sia il Signore a donare a tutti il suo abito nuziale, potremo a nostra volta riconoscerci stranieri accolti, pellegrini verso il regno che vivono la xenitéia ma sono capaci di filoxenía, di ospitalità.