L’approssimarsi dell’appuntamento con le urne (secondo le analisi dei “quirinalisti” la data più probabile per il voto è all’inizio di marzo, con scioglimento delle Camere tra fine anno ed Epifania) ha acceso i riflettori sulla scelta dei personaggi che rappresenteranno le forze politiche, singole o aggregate, nella competizione elettorale. Fino a poco tempo fa si sarebbe parlato semplicemente di leader, ma la prospettiva di andare a votare con un sistema proporzionale ha scardinato i meccanismi introdotti dal sia pur parziale e imperfetto maggioritario all’italiana. In particolare l’idea che i partiti o gli schieramenti si dovessero presentare agli elettori con un candidato premier e che il voto avrebbe determinato sostanzialmente – fatte salve le prerogative del presidente della Repubblica – la nascita di questo o quel governo, guidato dal capo della forza politica vincente. È quel che accaduto – pur tra le mille contraddizioni note – con i governi Berlusconi e Prodi. Quest’idea, per la verità, è andata in crisi già all’inizio di questa legislatura, nata senza che dalle urne fosse uscita una maggioranza definita in entrambi i rami del Parlamento, e la crisi istituzionale che ne è scaturita si è riverberata persino sull’elezione del Capo dello Stato, con l’inedito secondo mandato del Presidente uscente, Giorgio Napolitano. Ma stavolta l’assenza di una maggioranza indicata dal voto non è solo un rischio connesso all’intrinseca incertezza del risultato in libere elezioni democratiche, quanto l’esito prevedibile e abbondantemente previsto di un quadro politico che vede tre poli grosso modo equivalenti e di un sistema elettorale che fotograferà questo assetto. Persino nel caso in cui uno dei tre poli dovesse conquistare il premio di maggioranza che scatta alla Camera per chi raggiunge il 40% (traguardo che appare largamente fuori dalla portata di tutti, ma teoricamente possibile), al Senato non ci sarebbe alcun premio per il semplice motivo che la legge elettorale in vigore non lo prevede.
Se tale normativa non sarà modificata, sarà un’impresa ardua mettere insieme una maggioranza sensata che sostenga un governo di coalizione in Parlamento. Il che metterà in primo piano le personalità capaci di aggregare consensi trasversali, piuttosto che i capi partito.
Naturalmente in campagna elettorale ogni forza politica correrà per sé e con il proprio front man, ma è bene che gli elettori abbiano chiare le dinamiche reali che si prospettano per la prossima legislatura. Detto ciò, la scelta degli uomini-bandiera è molto interessante per quel che ci dice sulle trasformazioni dei partiti. La novità di questi giorni è l’investitura formale di Di Maio nei Cinquestelle. Bisognerà vedere in concreto che cosa questo significherà per il movimento, a cominciare dai rapporti con Grillo e Casaleggio. In casa Pd, nonostante Renzi abbia avuto un’investitura popolare con le primarie, i giochi sembrano tutt’altro che fatti per i crescenti consensi del premier Gentiloni. Nel centro-destra Berlusconi e Salvini prendono tempo. Per loro, ma non solo, se ne riparlerà probabilmente dopo le elezioni siciliane.
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