“Ritornare ad avere il coraggio dei grandi valori di cui è piena la nostra storia; ricercare la bellezza, non in senso estetico ma come autenticità; ritrovare la grande responsabilità sociale e culturale che aveva Francesco nel suo tempo”, che implica la capacità di “abbandonare i piccoli orizzonti e fare grandi cose, con un pizzico di sana utopia”. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, elenca tre impegni per dare seguito al grande successo che il “Cortile di Francesco” ha avuto ad Assisi, dove ministri, filosofi, artisti, religiosi, giornalisti, manager, uomini di cultura credenti e non credenti si sono confrontati sul tema: “Cammino”. Lo abbiamo intervistato.
Qual è il suo personale bilancio del “Cortile di Francesco”, e come si inserisce nel percorso del “Cortile dei Gentili”?
Il Cortile dei Gentili è ormai una rete estesa in diversi Continenti, e l’elemento fondamentale resta la volontà della fede di confrontarsi nel dialogo tra visioni completamente diverse, che si ritrovano però nella volontà di andare oltre la superficie delle cose, a partire dal senso dell’essere e della nostra esistenza. Il Cortile di Francesco, da Assisi, vuole portare avanti una riflessione non soltanto su un tema ma su diverse questioni che attraversano il nostro tempo, facendo dialogare differenti visioni del mondo accomunate però dall’intento di andare oltre la parcellizzazione, la frammentazione dei saperi, tipica del nostro tempo.
Lei ha incontrato il grande artista statunitense di origine bulgara Christo, protagonista di una delle serate del “Cortile”, per una visione privata della sua mostra accanto alla basilica superiore: cosa vi siete detti?
Sono rimasto molto impressionato dalla grandiosità delle sue opere: con la passerella sul lago di Iseo, ad esempio, Christo ha voluto riprendere la visione di Gesù che cammina sulle acque: il mare, simbolicamente, evoca il male, il nulla, mentre la passerella diventa uno strumento d’incontro tra paesi, tra cittadine separate dall’acqua e ora in contatto immediato e diretto. C’è una dimensione di libertà, nell’artista, che gli consente di rendere epifanico anche ciò che è realtà quotidiana, alcune dimensioni nascoste di essa che grazie all’opera d’arte rivelano significati diversi.
La conclusione del “Cortile” è stato il confronto-dialogo tra lei e il ministro Minniti: quali le urgenze che ne sono scaturite?
Non è la prima volta che incontro il ministro, c’è già tra di noi un dialogo stabile. Tre i temi principali su cui ci siamo confrontati:
il primo è la volontà di comprendere i fenomeni, di intelligenza in profondità della vita del popolo, andando al di là dei luoghi comuni e degli stereotipi; il secondo è il desiderio di affrontare il tema dell’accoglienza dei migranti in tutte le sue dimensioni; il terzo tema, infine, caro anche a Papa Francesco, è stato il confrontarci su come accogliere chi arriva nel nostro Paese.
“L’umanità è il prodotto del futuro”, la provocazione lanciata da Oliviero Toscani, da Assisi, con il suo “design for humanity”. C’è un “deficit di umanizzazione” nel nostro mondo?
La comunicazione digitale, l’informatica, le nuove tecnologie danno luogo ad un eccesso di informazione, che produce un tasso di bulimia e anoressia inedito e fino ad ora impensabile in questo campo. L’umanità, in questo modo, sembra ormai superata: si va verso forme di transumanesimo o postumanesimo. L’ingresso della robotica nelle nostre vite è certamente positivo, senza contare i progressi delle neuroscienze o la capacità d’intervenire sul nostro Dna. In tutte queste conquiste, tuttavia, è insito il pericolo di una forte perdita di umanità: basti pensare alla possibilità di intervenire sul cervello in maniera radicale, che ripropone il problema della responsabilità, della moralità della coscienza. Più che di deficit di umanità, io parlerei allora di “eccesso di umanità”, di desiderio di amplificarla con l’intento di aiutarla ma senza controllo: la comunicazione digitale, se assolutizzata, rischia di far perdere il contatto con la realtà, ad esempio con il linguaggio degli innamorati, che più che di parole è fatto di sguardi o di silenzi, e proprio quando si sta in silenzio si dice molto di più di quanto poco prima si era riusciti a dire con le parole.
Oltre alla parola “paura”, associata in particolare a migranti e terroristi, dai dialoghi del “Cortile di Francesco” è emerso un quadro di un’Italia “spaesata”: è il momento di investire di più in cultura?
Se fino al Novecento il termine cultura era considerato soltanto appannaggio degli artisti, nel cosiddetto “secolo breve” ha acquisito un connotato antropologico.
Oggi la cultura deve riappropriarsi sempre di più della propria accezione per così dire “artigianale”, legata al lavoro dell’uomo e alla capacità che l’essere umano ha di fare bene il proprio lavoro, anche in un contesto sociale fortemente mutato rispetto a quello della rivoluzione industriale.
Questo significa, oggi, investire in cultura: andare alle radici di ciò che ha dato origine alla cultura occidentale. La cultura sono i padri e le madri che aiutano i propri figli a vivere decorosamente con il proprio lavoro, che preparano il cibo: non dimentichiamoci che, in latino, il termine “cultura” non esiste: lo usa solo una volta Cicerone, e non a caso come “agri-coltura”…