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USA Dreamers, le preoccupazioni di Maria e Josè, tra gli 800mila che rischiano la deportazione

Maddalena Maltese

Maria aveva 5 anni quando con il suo papà e la sua mamma hanno attraversato a piedi la frontiera tra Messico e Stati Uniti. Ha studiato e lavorato sempre duramente perché pagarsi i corsi all’università non era uno scherzo. Non è riuscita a finirli. Ha 23 anni e una figlia, da cui rischia di doversi separare se il Congresso statunitense non approverà la legge per proteggere i cosiddetti “dreamers”, i sognatori, cioè quei bimbi, ora adulti, giunti negli Usa senza documenti assieme ai genitori, alla ricerca di un sogno. Maria è appena uscita dal lavoro: si occupa di spedizioni. Scatole su scatole da imballare, sollevare e consegnare. Le parole escono a fatica, ma ripete incessantemente:

“Sono preoccupata per mia figlia”.

Maria infatti rischia la deportazione, assieme ai suoi genitori e la bambina, cittadina americana, potrebbe diventare un’orfana. Josè è più giovane: 20 anni. Grazie al progetto del Daca (Deferred action for childhood arrivals program) è riuscito ad avere i documenti e frequentare l’università. Anche per lui studio e lavoro si equivalgono in questa piccola cittadina della California, dove il 30 per cento della popolazione è costituita da giovani, arrivati illegalmente assieme alle famiglie. Loro ce l’hanno fatta, molti sono morti disidratati nel deserto. Anche per Josè la deportazione in Messico è un futuro molto probabile. Ma come adattarsi in un contesto di cui non conosce nulla, lui cresciuto americano e senza radici latine?

Maria e Josè sono solo due degli 800mila giovani che dallo scorso 5 settembre vivono nella sospensione.

Quel giorno, infatti, il ministro della Giustizia, Jeff Session, aveva annunciato a nome del presidente Trump la sospensione del Daca, l’azione differita per gli arrivi dei minori istituita nel 2012 da un ordine esecutivo di Obama.

Il programma prevedeva che i bimbi arrivati negli Usa illegalmente prima del 2007 e i giovani che al 2012 non avessero compiuto 31 anni, godessero di un permesso di studio e di lavoro rinnovabile ogni due anni, e al contempo avessero diritto alla patente di guida, all’apertura di un conto in banca, all’acquisto di una casa, alla possibilità di viaggiare senza il rischio di essere espatriati dal dipartimento di sicurezza.

Il presidente Trump, dopo la sospensione, ha chiesto al Congresso di legiferare entro sei mesi sulla sorte di questi ragazzi, che senza un provvedimento adeguato rischiano la deportazione di massa e di finire sulla strada. Olivia, che nella parrocchia provvede a tante di queste famiglie non riesce a cancellare le immagini dei tanti homeless nei Paesi di confine con gli Usa. “Sono deportati, che non hanno parenti, non hanno casa, non conoscono questo mondo senza possibilità e lo choc culturale è talmente grande che mette a rischio la stessa sopravvivenza. Passati da una società che ha tutto, non riescono ad adattarsi ad una società povera, perché non sanno come approcciarsi”.

(Foto: AFP/SIR)

Intanto, giovedì 13 settembre, a sorpresa il presidente Trump ha annunciato che sosterrà il programma dei dreamers, a fianco dei democratici; inasprirà i controlli sull’immigrazione e sospenderà la costruzione del muro al confine con il Messico. Se il tema dell’immigrazione è fortemente divisivo per il Paese, non lo è la concessione della cittadinanza ai giovani del Daca, guardati con simpatia da gran parte degli statunitensi e da molti sostenitori del presidente.

La decisione di Trump non è un fulmine a ciel sereno perché in queste settimane sia la Chiesa che la società civile hanno lavorato sodo per far sentire la loro voce. I vescovi statunitensi, dopo la dura condanna espressa sulla sospensione del programma, hanno invitato i fedeli e tutte le persone di buona volontà a contattare i loro rappresentanti al Congresso

“per esortare il passaggio di una legge a tutela dei dreamers, tempestiva, umana e duratura”.

La Conferenza episcopale si è scagliata con forza contro la decisione di fissare al 5 marzo 2018 la data ultima per il rinnovo dei permessi e ha chiesto che soprattutto nelle zone alluvionate, dove vivono gran parte di questi giovani, si proroghi la scadenza al 5 ottobre. L’indecisione del Congresso, sia a guida repubblicana che democratica, in questi anni ha lasciato i giovani del Daca sospesi, ma le ultime decisioni hanno gettato nell’angoscia migliaia di famiglie poiché i documenti in possesso dei dreamers contengono caratteristiche identificative non solo del loro status e della loro residenza, ma anche dei genitori che rischierebbero condanne per il reato d’immigrazione clandestina e conseguente deportazione.

Intanto, i rettori e i presidi dei 28 tra College e Università dei Gesuiti hanno annunciato che proteggeranno i loro studenti e hanno attivato un sistema di tutela legale a loro favore.

Sul sito della Fordham di New York, l’università di legge nata a servizio dei migranti, il rettore monsignor Joseph M. McShane ha ribadito che “la decisione di sospendere il Daca, oltre che gettare nello sconforto 800mila giovani, danneggia l’economia, distrugge la sicurezza, getta un’ombra sulle promesse del Paese e non si capisce per cosa”. Anche perché a fronte degli 11 milioni di immigrati illegali presenti nel Paese, il numero di questi ragazzi è davvero irrisorio. Nei college spopolano banchetti e bacheche a sostegno dei compagni “undocumented” (senza documenti) e tanti presidi hanno dichiarato che le loro istituzioni sono dei “sanctuary”, luoghi dove l’agenzia per l’immigrazione non può compiere arresti e perquisizioni senza che ci sia prova di un crimine. In massa si sono rifiutati di denunciare i loro studenti e di applicare nei loro campus un inasprimento delle leggi sull’immigrazione. Papa Francesco, di ritorno dalla Colombia, si era augurato che il Presidente prendesse in mano la legge a tutela dei giovani e ripensasse alle sue decisioni perché “sì è dichiarato pro-life e un buon sostenitore della causa della vita sa che la famiglia è la culla di questa vita e la sua unità va difesa”. Se lo augurano Josè e se lo augura Maria, anche per la sua piccola bambina.

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