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Catalogna. Il derby triste Madrid-Barcellona

Gianni Borsa

Il giorno dopo il proclamato referendum per l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna si contano i ricoverati all’ospedale e ci si misura con una democrazia ferita, nel vero senso della parola. Madrid e Barcellona questa volta ingaggiano un nuovo triste derby, senza sbocchi e senza scudetto finale per alcuno. Mentre sulla scena politica – regionale, nazionale ed europea – si contano troppi attori senza copione.

Numeri e parole. In epoca di divisioni politiche in Europa, di Brexit e nazionalismi rafforzati, ma anche di scontri identitari e sociali (di cui i recenti attacchi terroristici sono la più triste espressione), la via intrapresa dalle Generalitat per affrancarsi dal resto della Spagna appare tutta in salita e con scarse possibilità di pieno successo. Eppure il presidente catalano Carles Puigdemont, forte di un ampio (ma non maggioritario) sostegno elettorale, ha portato la regione fino a un passo oltre la legalità:“Lo Stato spagnolo ha scritto una pagina vergognosa della sua storia in Catalogna”dice, riferendosi alle azioni spesso violente della Guardia Civil, posta dal governo centrale davanti ai seggi per impedire il voto popolare. Gli oltre 800 feriti di domenica 1 ottobre parlano chiaro: Madrid ha usato la violenza. Ma forse nessuno si sarebbe fatto male se Puigdemont avesse ritirato il referendum dopo che la Corte suprema spagnola lo aveva dichiarato illegittimo. Puigdemont, con il suo entourage, è andato oltre la legge e la democrazia. Così il premier Mariano Rajoy si è sentito in dovere di usare la forza per far rispettare la legge e la democrazia.

Mariano o Franco? Dopo i fatti, oggettivamente tristi, di Barcellona, Girona, Lleida e Tarragona, a Mariano Rajoy è rimasta la parte del duro:“Non c’è stato alcun referendum, è chiaro a tutti”.“Il nostro stato di diritto – ha affermato – mantiene la sua forza e resta in vigore, reagisce di fronte a chi vuole sovvertirlo. Il voto è stata una sceneggiata”. Poi, finalmente, chiama al confronto “tutte le forze politiche”.  Gerard Piquè, popolarissimo difensore della squadra di calcio del Barcellona, dopo la partita a porte chiuse disputata con il Las Palmas, ha dal canto suo affermato: “Quando in Spagna non si votava c’era il franchismo: io sono orgoglioso di essere catalano”. Ma Piquè, forse trasportato dalla giovane età, non ricorda – o forse non sa – chi era Franco; i metodi utilizzati dal suo regime verso una regione secessionista sarebbero stati ben diversi.

Tre elementi. Ora a Barcellona accadono tre fatti. Il primo: il governo locale, i partiti indipendentisti e molti media sventolano i risultati del mezzo referendum: 2,2 milioni di voti, per il 90% pro-secessione, con il 42% di aventi diritto recatisi alle urne. A molti altri cittadini che avrebbero voluto votare l’accesso ai seggi è stato di fatto negato dalle forze dell’ordine spagnole della Guardia Civil (dopo che i Mossos d’Esquadra, la polizia regionale, aveva ammutinato, rinchiudendosi in caserma). Il secondo: per martedì 3 ottobre è stato proclamato uno sciopero generale allo scopo di protestare contro i “soprusi” del governo nazionale verso “la libertà e l’autodeterminazione dei catalani”. Terzo elemento: una volta che saranno proclamati i risultati del referendum (legittimo o meno), il Parlamento catalano, se tenesse fede alle promesse sbandierate, dovrebbe dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Anche se, all’indomani del referendum, cominciano a profilarsi ripensamenti, posizioni sfumate e dichiarazioni responsabili.

Quante domande. Così finalmente si torna a invocare il vero assente di tutta la vicenda: il dialogo. Quel dialogo che avrebbe dovuto portare le istituzioni centrali e quelle regionali a definire politicamente, senza forzature né colpi di mano, le legittime richieste di Barcellona e le altrettanto legittime obiezioni di Madrid rispetto al fatto che la regione di uno Stato – per quanto forte di una sua identità culturale e linguistica e più ricca delle altre regioni del Paese – possa staccarsi dal resto della nazione.

Così, nella penisola iberica come nel resto d’Europa, gli interrogativi, a partire da questa vicenda, si moltiplicano.

Quanta democrazia c’è in una pretesa indipendentista (che va ben al di là della richiesta di maggiore autonomia politica, sociale e fiscale)? Si difende la democrazia a suon di manganelli e di urne sigillate? Una differenza identitaria deve per forza di cose portare a una indipendenza politica e istituzionale? Quanto valore ha, oggi, una Costituzione? Cosa accadrebbe della Catalogna se riuscisse davvero a sganciarsi dalla Spagna? Diventerebbe una ricca e sicura isola felice?

E se Fiandre o Lapponia… Dal resto d’Europa si moltiplicano ora commenti e prese di posizione pro Rajoy (ad esempio Macron e Merkel) o pro Puigdemont (Mélenchon, Salvini, Farage). Ma come si comporterebbe un qualunque premier o capo di Stato se una regione del suo Paese optasse per il divorzio? Se le Fiandre o la Transilvania, la Corsica o la Slesia, la Calabria o la Lapponia rivendicassero un proprio governo, un Parlamento autonomo, una Costituzione, armassero un esercito, battessero moneta e issassero confini con regioni e Stati circostanti? Anche in questo caso s’impongono tante domande, attraversano il Vecchio continente (che è un crogiolo di diversità culturali, linguistiche, identitarie, economiche, in passato all’origine di non pochi conflitti) e approdano a Bruxelles.In questi casi ci si ricorda che esiste una Unione europea, e si pretende che sbrogli la matassa dopo che essa è stata avvoltolata a livello locale.D’altro canto la posizione Ue non può che essere determinata e “duplice”: da una parte sostenere l’unità degli Stati nazionali che costituiscono l’ossatura della stessa Unione; dall’altra tornare a invocare il confronto politico tra le parti, che è l’unico modo per uscire dalla strada senza sbocchi intrapresa da Madrid e Barcellona.