GROTTAMMARE – Mercoledì 4 ottobre all’interno della chiesa Madonna della Speranza di Grottammare si è tenuto l’atteso incontro con Padre Giulio Albanese, il missionario comboniano e giornalista che da sempre si occupa di tematiche legate al Sud del Mondo e in particolar modo all’Africa.
In un dialogo franco e informale con il parroco don Dino Pirri, di fronte a un nutrito pubblico, Padre Albanese ha espresso nel suo linguaggio semplice e diretto ma preciso ed esauriente il suo pensiero riguardo l’argomento, tanto scottante in questi anni, delle migrazioni dall’Africa verso l’Europa e l’Italia. Prima di tutto, Padre Albanese ha precisato che è riduttivo parlare di Africa, poiché si dovrebbe parlare di “Afriche”, in quanto si tratta di un universo incredibilmente vario e troppo spesso misconosciuto. Ci troviamo di fronte, dunque, a una realtà che conosciamo poco o per nulla, ma che rappresenta una galassia umana di quasi un miliardo e mezzo di individui, che comprende oltre 800 culture o etnie diverse (considerando soltanto le maggiori), la cui popolazione cresce di numero a un ritmo altissimo.
E il fenomeno migratorio è una realtà irreversibile, perché è figlio del naturale flusso della storia umana. Le “Afriche” rappresentano una realtà complessa e mutevole, non è possibile pretendere di dare risposte certe e inequivocabili ai loro problemi.
Capire e accettare la realtà di un Africa plurale e in uscita è la chiave ermeneutica fondamentale per entrare nella questione e non cadere in equivoco.
Dunque l’Africa è un mondo in uscita pur essendo una terra piena di ricchezze naturali come, soltanto per fare un esempio, il tantalio (ormai indispensabile per l’industria dell’elettronica di consumo e della telefonia mobile). Ma in un pianeta totalmente squilibrato, in cui l’1% degli abitanti possiede altrettanta ricchezza del restante 99%, in cui le sole 8 persone più ricche detengono risorse pari a quelle di metà della restante popolazione, ci troviamo di fronte a delle disuguaglianze ingiuste e ingiustificabili che diventano un gravissimo peccato contro l’uomo e contro Dio.
Infatti gli africani non sono padroni dell’aria che respirano o della terra che calpestano, in quanto quasi tutta la ricchezza da loro prodotta non resta in Africa. È molto più consistente il flusso di danaro che dall’Africa esce per raggiungere i paesi del Nord del Mondo rispetto a quello che vi entra sotto forma di aiuti umanitari. E questo accade soprattutto per colpa del sistema del debito. Esiste una struttura di corruzione che lega i governi del Nord del Mondo a quelli africani, è una questione di business. Siamo dunque complici dei malgoverni africani.
Ma così come esistono molte e diverse “Afriche”, altrettanto diversi sono gli africani che le abitano, anche se nei nostri paesi essi sono giudicati esclusivamente attraverso categorie culturali di stampo coloniale. Tra l’altro moltissime etnie non sono comprese in maniera netta e armonica dentro i vari confini nazionali (di origine coloniale), ma spesso li travalicano e si distribuiscono fra stati confinanti e non di rado in guerra tra loro. Tuttavia esiste una coscienza civile che si sta formando tra gli africani, una società composta prevalentemente da giovani (che compongono più del 25% della popolazione continentale) e donne (le quali producono il 65% di tutto il PIL). Soltanto la città di Nairobi in Kenya ospita 30 università, e proprio l’istruzione deve rappresentare la priorità assoluta per l’Africa. Uno degli enzimi che stanno facendo sorgere una società civile è proprio la Chiesa Cattolica, con le sue missioni da sempre impegnate nella promozione umana e culturale.
Le ragioni per cui gli africani emigrano non vengono realmente approfondite dai nostri mezzi di comunicazione, ma anzi sono veicolate secondo ragioni di audience, o per motivi elettorali. Per esempio il fenomeno degli sbarchi viene presentato esclusivamente come un fatto di cronaca nera, attraverso la ripetizione dei soliti luoghi comuni e senza mai affrontare le ragioni profonde che spingono la gente a migrare. Infatti i mass media tendono ad appiattire il pensiero e il senso critico, e probabilmente il primo peccato da confessare dovrebbe essere quello di guardare trasmissioni televisive come il Grande Fratello. La nostra è diventata una cultura pressappochista, esclusiva e non inclusiva. Invece una corretta informazione è la prima forma di solidarietà.
Il fenomeno migratorio ci propone una sfida anche teologica. Noi abbiamo ancora la presunzione di sentirci benefattori, educatori, civilizzatori, in pratica colonizzatori. Bisogna invece uscire da questa logica paternalistica ed entrare nella dimensione dell’ascolto. Anche perché in realtà il numero dei migranti che accogliamo nei nostri paesi è irrisorio rispetto al numero dei migranti che si ammassano negli stessi paesi africani. Oggi si fa il paragone con le cosiddette “invasioni barbariche”, ed è un esempio estremamente calzante perché anche quella fu un’emergenza umanitaria gestita male e da un sistema corrotto e speculatore. Dunque bisogna intervenire a monte del problema, sulle ragioni dei flussi migratori, come le guerre. L’Africa è il territorio più martoriato dai conflitti, e pertanto è assurda la distinzione fra migranti economici e migranti politici.
Infine Padre Giulio Albanese ha accennato ai contenuti di uno dei suoi numerosi libri, intitolato “Poveri noi”. È un titolo indubbiamente provocatorio, ma che si richiama a una teologia neo-pauperistica già proposta nel corso del Concilio Vaticano II e oggi ripresa anche da papa Francesco, quando afferma che “i poveri sono la carne di Cristo”. Quindi la Chiesa o è povera o non è chiesa! Ma la povertà non è mancanza di mezzi, non è privazione, la povertà è condivisione, è ricerca del bene comune e pertanto fondamento della res publica. Il benessere infatti non sta nell’accumulo delle risorse ma nella loro condivisione.