Di Gianni Borsa
“Serve un approccio che non impedisca ai governi di andare avanti in aree specifiche pur lasciando la porta aperta a chi si vorrà unire successivamente. L’unità non può essere una scusa per la stagnazione, ma al tempo stesso l’ambizione non può portare a divisioni”. Si concentra in queste righe il messaggio che Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, invia ai 28 capi di Stato e di governo Ue, convocati a Bruxelles per il 19 e 20 ottobre. Un summit che avrebbe dovuto trattare di agenda digitale, migrazioni, sicurezza e politica estera, ma che – pressato dalle sfide globali (migrazioni, terrorismo, economia) e dai fermenti interni (Brexit, Catalogna, Visegrad, populismi…) – deve, secondo Tusk, cambiare marcia.
Per superare l’impasse. Così il politico polacco invia una lunga lettera ai governanti dell’Ue, con acclusa una “Agenda dei leader”. “This Leaders’ Agenda is a living document that will be updated and amended as required”, scrive in inglese. Ovvero un piano di lavoro “in progress” si direbbe, che “verrà aggiornato e modificato” secondo le necessità, e che porta l’Ue fino alle elezioni dell’Europarlamento del 2019, con l’intento di rafforzare la coesione tra i Paesi Ue pur introducendo le due (o più) “velocità”.
È questo il balzo in avanti che Tusk propone all’Unione europea da tempo in stallo.
Chi vuole, procederà con nuove e approfondite forme di collaborazione politica ed economica; chi è titubante può prendersi il tempo necessario, sapendo che troverà in futuro la “porta aperta”, come dice lo stesso Tusk. Una scelta non da poco: da una parte vorrebbe sbloccare il cammino dell’Unione, dall’altra rischia di seppellire il sogno della vera unità europea in chiave federalista.
Ambizioni e “nuove idee”. Il presidente del Consiglio europeo – facendo tesoro delle decisioni assunte dai 27 a Bratislava nel settembre 2016 e a Roma nel marzo scorso e dopo lunghe consultazioni con premier, cancellieri e presidenti – di fatto modifica la portata del summit di questa settimana, in qualche modo induce i leader ad esprimersi sulla rispettiva visione dell’Europa di domani,
“stana” chi vorrebbe frenare la progressiva integrazione politica con un’accelerazione inaspettata, nelle intenzioni benefica, magari lacerante.
A Tallin (recente summit informale) “abbiamo deciso di sviluppare un programma per i prossimi due anni”. Sulla base delle consultazioni delle ultime settimane, Tusk ravvede dunque “la volontà di rinvigorire e arricchire il nostro lavoro, anche attraverso nuove idee”. Ed elenca e poi declina tre principi.
Tre “punti fermi”. Innanzitutto, “dobbiamo concentrarci sulle soluzioni pratiche ai veri problemi dei cittadini dell’Unione”. In secondo luogo, “dovremmo procedere passo dopo passo” (cioè senza strappi). Alcune questioni “sono ormai mature per le decisioni – scrive – e dovrebbero pertanto essere affrontate subito, con velocità, ambizione e determinazione, in modo da garantire un reale progresso. Altre cose dovranno essere ulteriormente preparate”. In terzo luogo, “dobbiamo preservare l’unità che siamo riusciti a sviluppare nel corso dell’ultimo anno”. Una unità di intenti – ma non di azioni conseguenti, si potrebbe osservare – per risolvere la crisi migratoria, affrontare gli aspetti ingiusti della globalizzazione, far fronte all’Isis e al terrorismo, e per “limitare i danni causati da Brexit”.
Tali sfide possono essere affrontate “solo se agiamo in unione, poiché i singoli Paesi sono troppo piccoli per farvi fronte da soli”.
Calendario e argomenti. Ovviamente rimane il problema di come “conciliare l’unità con il dinamismo”. Da qui il richiamo alla Dichiarazione di Roma, con “un approccio che non impedisca agli Stati membri di procedere più rapidamente in settori specifici, conformemente ai trattati, pur mantenendo la porta aperta per coloro che vogliono aderire più tardi”. Segue il calendario di summit, formali e informali, con relativo elenco dei temi da affrontare, avendo l’accortezza di non schiacciare i piedi ad Angela Merkel, impegnata a formare il governo, e senza rompere del tutto i rapporti con Londra (negoziati Brexit) e i Paesi Visegrad (l’agenda su accoglienza migranti e riforma dell’asilo non è certo pressante, mentre l’Italia e la Grecia restano sole in prima linea a far fronte agli sbarchi da Africa e Medio Oriente).
Fino al voto del maggio 2019. Così si comincia il 19 novembre con il summit sociale di Goteborg, a metà dicembre Consiglio europeo sulla difesa comune, a febbraio 2018 vertice per discutere la ripartizione futura dei seggi dell’Europarlamento che saranno lasciati liberi dai deputati britannici. A marzo successivo, a Bruxelles, si discuterà di mercato unico e sostegno all’economia e al lavoro, a maggio riunione a Sofia sul futuro europeo dei Balcani. E, ancora, riunioni a giugno, settembre, ottobre, dicembre 2018, e marzo seguente, ciascuno con un tema principale in discussione. Il 29 marzo 2019 è stabilito l’addio al Regno Unito.
Il 9 maggio (festa d’Europa), a Sibiu, in Romania, maxi vertice per fare il punto sull’Agenda,
verificare i passi avanti compiuti, programmare a grandi linee il calendario per i cinque anni successivi e lanciare un ulteriore messaggio di unità e di speranza ai cittadini europei, chiamate alle urne di lì a poche settimane.