Sono ormai quasi quindici anni che osservo e denuncio con profondo rammarico e viva preoccupazione come la nostra società si sia incamminata a “piccoli passi verso la barbarie”. Ormai questo cammino a ritroso verso l’inciviltà è assai lungo e i piccoli passi sono divenute grandi falcate, al punto che dalla barbarie ci sentiamo avvolti ogni giorno di più. L’incresciosa vicenda dell’immagine di Anna Frank usata per schernire i sostenitori della squadra di calcio rivale è solo l’ultimo episodio di una deriva che ha visto parole e gesti rincorrersi in un crescendo di disumanizzazione.
Utilizzare l’immagine simbolo della resistenza morale dell’innocenza alla tragedia della Shoah è l’ennesima dimostrazione di come la nostra società abbia creato a livello di linguaggio – verbale, gestuale, figurato – una tale mescolanza di ambiti che ha certificato l’imbarbarimento dei rapporti quotidiani.
Pubblico e privato, stadio e tribunale, aule del parlamento e piazze della protesta, bar di quartiere e salotti televisivi usano ormai gli stessi linguaggi – ulteriormente amplificati e degradati dai social – cui è stato tolto l’elemento decisivo per ogni dialogo civile: l’ascolto dell’altro.
Così è venuto a mancare ogni terreno comune, ogni condivisione di valori: si è prodotta una rottura del patto sociale sia a livello orizzontale, tra contemporanei, che verticale, tra generazioni. Abbiamo dimenticato che siamo “cittadini” solo in quanto “con-cittadini”, partecipi di un’eredità collettiva, così come nella Chiesa siamo “discepoli di Cristo” solo in quanto “con-discepoli”, eredi di una fede trasmessa come dono di generazione in generazione. Sì, perché la peculiarissima, insopprimibile unicità di ciascuno di noi si nutre quotidianamente dell’altro, del rispetto per le sue idee e per il suo corpo, dell’ascolto e del confronto, dell’equilibrio tra diritti e doveri civili. Per una sorta di nemesi storica, invece, abbiamo infranto tabù e siamo ripiombati in tribù rancorose, abbiamo tolto i freni inibitori e innalzato muri discriminatori, abbiamo negato l’altro e smarrito noi stessi.
Di fronte a questa disumanizzazione progressiva che è anche disgregazione della società, come cittadini e come credenti non possiamo e non dobbiamo rassegnarci.
Ascoltiamo una voce che viene dalla generazione che ha vissuto al cuore del secolo breve e dei suoi orrori: “Vi preghiamo: quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale, di nulla sia detto ‘è naturale’ in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità. Così che, forse, nulla valga come cosa immutabile”. L’accorato appello di Bertolt Brecht può essere accolto cominciando proprio dal linguaggio, come aveva intuito secoli prima Confucio rispondendo a chi gli chiedeva che avrebbe fatto “per prima cosa” qualora il principe Wei gli avesse affidato il governo: “È assolutamente necessario ridare ai nomi il loro vero significato”.
Rimettiamoci con pazienza, allora, a usare parole di solidarietà e non di odio, di fraternità e non di inimicizia, di com-passione e non di scherno.
In questo contesto i cristiani sono chiamati a offrire alla polis il loro contributo per un’etica condivisa e una ritrovata convergenza di valori, consapevoli dell’enorme responsabilità educativa che ricade sulla Chiesa e i suoi pastori, sulle comunità locali, su ciascun battezzato. Siamo chiamati a praticare l’ascolto dell’altro, ad accoglierlo nella sua diversità, a cercare con lui e non contro di lui vie di giustizia e di pace, a “dare ragione della speranza che è in noi … con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza” (1 Pt 3,15-16).
Oggi come sempre questo è un percorso faticoso che richiede di compiere ogni giorno, con ogni parola e gesto, “piccoli passi verso l’umanizzazione”; richiede di recuperare, e non infangare con l’odio, i “simboli”: questi non sono vuoti simulacri bensì, letteralmente, parti di un unico anello che, ricomposte, consentono di ritrovare la pienezza di due identità che hanno un’unica origine: l’umanità.