DIOCESI – “Il libro dell’Esodo è chiamato dagli ebrei “I Nomi”. La Bibbia greca, detta dei LXX , “Settanta”, ha usato invece il termine Esodo per indicare già nel titolo il contenuto del libro, cioè l’uscita degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto verso la libertà della terra promessa”.
Con queste parole Don Ulderico Ceroni, teologo della Cattedrale, ha introdotto il ritiro del clero diocesano presso la Parrocchia Madonna del Suffragio in San Benedetto del Tronto.
Don Ulderico ha poi affermato: “Il testo che è giunto fino a noi è il risultato di una continua rilettura sapienziale e teologica dell’evento fondatore nelle nuove situazioni di schiavitù ed oppressione che il popolo ebreo ha dovuto affrontare nella sua storia. Come per gli altri libri del Pentateuco, la redazione finale è da collocare dopo l’esilio babilonese (forse verso il 450-400 a.C.) al tempo di Esdra e Neemìa, quando un gruppo di studiosi, restauratori della fede e delle istituzioni del popolo ebraico, ha raccolto e legato insieme le varie Tradizioni precedenti (Jahwista, Eloista, Deuteronomista, Sacerdotale).
Il libro dell’Esodo è il più importante per l’intera Historia salutis: da esso parte tutto il resto della rivelazione; da lì nasce il popolo eletto, alleato e servo del Dio liberatore dei poveri; da esso parte e ad esso si ispira ogni liberazione dalle continue schiavitù nelle quali cadrà Israele durante la sua storia.
L’Esodo è molto citato, sia nel Primo che nel Secondo Testamento; ad esso si è riferita la comunità protocristiana per interpretare la figura di Gesù di Nàzareth come nuovo Mosè che libera il nuovo popolo di Dio; come agnello pasquale che stipula la nuova alleanza (kainh . diaqh ,kh) nel suo sangue versato per la liberazione definitiva dell’intera umanità.
L’Esodo (come la Genesi) più che un libro storico, è un racconto teologico: vuole proporre un messaggio su chi è Dio e su come agisce nella storia del popolo d’Israele. In questo senso il suo contenuto è un paradigma valido per ogni tempo: le vicende qui descritte si rinnovano continuamente nella storia dell’umanità, anche se con nomi, forme e modalità diverse.
UN POPOLO OPPRESSO.
I primi due capitoli presentano la situazione di oppressione del popolo ebreo in terra d’Egitto e la preparazione
del liberatore. Il tema di fondo è riassunto nei versetti conclusivi: «Dopo molto tempo il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero».
In quel grido e in quei lamenti che salgono al cielo sono simboleggiate tutte le sofferenze degli oppressi e degli umiliati della storia umana, come nella terra d’Egitto sono simboleggiate ogni terra di oppressione e ogni impero che si oppone a Dio e rende schiavi gli uomini. In quel grido e in quei lamenti è racchiuso anche il mistero del “silenzio di Dio” che sembra apparentemente restare indifferente ai drammi del mondo, ma sempre pronto ad agire per far sorgere “cieli nuovi e terra nuova”. Da notare che non è il popolo egiziano ad opprimere gli ebrei, ma è il faraone che opprime ebrei ed egiziani con la sua megalomania e i suoi progetti “faraonici”. Qui il re d’Egitto diventa il simbolo di ogni potere assoluto (religioso) che vuole mettersi al posto di Dio e non si cura del bene delle persone. Da notare anche i “tempi lunghi” di Dio nel dare risposta al grido dei poveri, in contrasto con la nostra pretesa di avere riscontri “in tempo reale”. Dio agisce, ma non con i tempi dei social network e di Internet!
La Tradizione Jahwista inizia il suo racconto presentando Mosè già adulto che intraprende un tentativo isolato di liberare gli schiavi ebrei. Mosè s’interroga sulla realtà che vede e cerca di farsi promotore di liberazione difendendo i diritti degli schiavi. Nel cuore e nella testa di Mosè forse Dio avrebbe scelto la via del potere per liberare il suo popolo e lo avrebbe preparato proprio per questo. Ci sono dei verbi che illustrano
bene questa scelta iniziale di Mosè e questa sua ricerca della volontà di Dio sulla sua vita:
– Uscì: è la scelta di lasciare la reggia, la sua condizione d’isolamento in una vita dorata, la sua posizione di privilegio, per mescolarsi con la gente povera, umile, che lavora … È la scelta che noi oggi chiamiamo incarnazione, conoscere e condividere il vissuto,i problemi della gente, farsi prossimo dei più deboli e degli afflitti, scelta dei poveri
– Vide: lasciata la reggia e il piedistallo del potere, vede la realtà con occhi nuovi, la vede dalla parte degli ultimi, di chi soffre. Vede gli schiavi come suoi fratelli, si identifica con loro, sente come sua la loro situazione.
– Uccise: nell’irruenza della giovinezza reagisce all’ingiustizia e al sopruso con la violenza, per dare un segno a tutti gli schiavi che bisogna ribellarsi e non subire i maltrattamenti. Agisce con la logica e la politica che ha imparato nelle stanze del potere: i problemi si affrontano e si risolvono con la decisione e la forza, non con la compassione e la tenerezza. Per fare giustizia e liberare gli schiavi, Mosè prende la via della violenza e degli attentati.
Diventa un rivoluzionario che vuole risolvere i problemi dall’alto della sua posizione di privilegio e con la logica del potere e della forza. Ma questa logica non risolve i problemi, anzi li complica e suscita altre reazioni violente e lotte di potere.
– Ebbe paura e fuggì: il primo tentativo di Mosè per liberare il popolo ebreo dalla schiavitù fallisce perché fatto secondo la logica del potere, non secondo quella di Dio e dei poveri. Mosè è tradito e sconfessato proprio da quelli che voleva difendere: non lo riconoscono come uno di loro, ma lo sentono come un intruso, un nuovo capo che vuole tiranneggiarli. La logica della violenza non porta alla liberazione, ma alla paura e alla fuga; lui stesso si ritrova a dover fuggire e a diventare esule e perseguitato, senza più potere e privilegi. Prima di diventare un vero liberatore e la guida di un popolo libero, Mosè dovrà cambiare radicalmente la sua mentalità; dovrà vivere in prima persona la condizione di nomade e di straniero; dovrà fare
una profonda esperienza del Dio liberatore dei poveri.
Il suo primo tentativo di rivolta è fallito, ma questo fallimento diventa una grazia che lo trasforma profondamente
e lo prepara alla sua futura missione”.
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