Guarire le ferite, quelle visibili e quelle invisibili, con il balsamo della misericordia. La via della pace, della riconciliazione e del perdono passa da qui, ed è l’unico antidoto alla rabbia, alla vendetta e alla negazione dei diritti umani. Francesco, il primo Papa a recarsi in Myanmar – Paese con oltre 52 milioni di abitanti a maggioranza buddista, dove i cattolici sono l’1,7% della popolazione – non nomina mai i Rohingya. Eppure il primo gesto, a sorpresa, al suo arrivo a Yangon, in una giornata che avrebbe dovuto essere dedicata soltanto al riposo dal lungo viaggio, è quello di anticipare l’incontro con il capo dell’esercito, Min Aung Hliang. “Si è parlato della grande responsabilità del Paese in questo momento di transizione”, dirà ai giornalisti il portavoce vaticano, Greg Burke, a proposito dell’incontro privato del 27 novembre, previsto invece da programma per il 30.
Pace per tutti, nessuno escluso. Il primo momento pubblico del 21° viaggio apostolico internazionale di papa Francesco, il 28 novembre, dopo l’incontro privato con i leader religiosi, è l’incontro con Aung San Suu Kyi, figlia del generale Aung San, segretario del Partito Comunista Birmano ucciso nel 1947 da oppositori politici, Premio Nobel per la pace nel 1991 e ora consigliere di Stato e ministro degli Esteri.
“Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascuno individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune”.
Pur senza menzionare esplicitamente i Rohingya, Francesco fa notare che la costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. Se lavorano insieme, con spirito di armonia e rispetto reciproco, le comunità religiose birmane possono svolgere un ruolo importante in questo processo, soprattutto per guarire le ferite emotive, spirituali e psicologiche di tutti coloro che hanno sofferto negli anni del conflitto.
In Myanmar, “il futuro è nelle mani dei giovani”, dice il Papa nella parte finale del discorso alle autorità e al corpo diplomatico, in cui parla di giustizia tra le generazioni e del diritto che “le generazioni future possano ereditare un ambiente naturale incontaminato dall’avidità e dalla razzia umana”.
E proprio i giovani sono stati i destinatari della Messa del 30 novembre alla St. Mary’s Cathedral, scelta dal Papa come momento di congedo dal Myanmar. “Come padre, o meglio come nonno, non voglio lasciarvi soli”, ha assicurato Francesco, esortando i giovani presenti dentro e fuori la chiesa, giunti da tutto il Paese, a non aver paura dei propri errori e a farsi sentire. Senza paura di “fare scompiglio”, ma gridando con la vita, col cuore.
Il bastone dei profughi del Rakhine. Il Kyakkasan Ground di Yangon è un parco di 60 ettari, dove i giovani sono soliti praticare una trentina di attività sportive. Il 29 novembre, la folla che lo riempie si perde a vista d’occhio. Mentre parla, il Papa si appoggia ad un bastone di legno donatogli dai profughi del Rakhine, dove si concentra la maggioranza dei Rohingya.
Per essere “testimoni della riconciliazione e della pace” bisogna saper dire no alle vendetta e sì al “balsamo della misericordia”, il messaggio centrale dell’omelia di Francesco, davanti a 150mila fedeli cattolici che sono giunti da ogni parte del Paese con ogni mezzo, perfino a piedi, pur di vedere, almeno una volta nella vita, il successore di Pietro.
È dalla croce di Cristo che viene la guarigione: per guarire le ferite, visibili e invisibili, della violenza, di un conflitto durato 50 anni, bisogna imparare dalla piccola Chiesa, apparente insignificante nei numeri ma viva, del Myanmar, che sta aiutando un gran numero di uomini, donne e bambini, senza distinzioni di religione o di provenienza etnica.
L’amore di Gesù – spiega il Papa -è un “Gps spirituale” che ci guida verso il cuore del nostro prossimo.
Mai rassegnarci. “Mai rassegnarci” alle ferite dei conflitti, della povertà e dell’oppressione. È il compito comune di cattolici e buddisti, nelle parole adoperate da Papa Francesco durante l’incontro con il Comitato di Stato “Sangha” dei monaci buddisti al Kabe Aye Centre di Yangon, luogo simbolo del buddismo Theravada e uno dei templi più venerati dell’Asia sudorientale.
Per far “avanzare la pace, la sicurezza e una prosperità che sia inclusiva per tutti”, bisogna che “ogni voce sia ascoltata”, il monito di Francesco, che definisce i valori di Buddha, come quelli di san Francesco, essenziali per la società. “Camminare insieme lungo questo sentiero di guarigione, e lavorare fianco a fianco per il bene di ciascun abitante di questa terra”, l’auspicio finale.
Difendere i diritti umani. Incontrando i vescovi nell’arcivescovado di Yangon, il Papa parla a braccio per ricordare che la Chiesa è un ospedale da campo e affidare ai presuli birmani una missione: “Guarire”. In vista del prossimo Sinodo, Francesco esorta il clero del Myanmar ad “accompagnare” i giovani. Pregare e curare la “salute spirituale” dei sacerdoti, l’altra consegna, insieme all’invito a far sentire la propria voce nelle questioni di interesse nazionale – come la difesa dei diritti umani e della democrazia – e a proteggere l’ambiente. Anche nella St. Mary’s Cathedral il Papa aveva chiesto ai giovani, tra le doti essenziali del loro bagaglio, la “passione per i diritti umani”, per la giustizia e per la pace.