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Banche sotto accusa. Ferri (Lumsa): “Tutelare il risparmio, il bail in è una grandissima stupidaggine”

Stefano De Martis

Con le elezioni ormai alle porte e una commissione parlamentare d’inchiesta al lavoro, non è facile parlare dei problemi delle banche sganciandosi dalla polemica politica quotidiana. Proviamo a farlo con Giovanni Ferri, ordinario di economia politica alla Lumsa – di cui è anche pro-rettore – e profondo conoscitore del sistema bancario anche a livello internazionale.

Che cosa è successo nel mondo delle banche italiane in questi ultimi anni? Perché tanti episodi di crisi? Qualcosa non ha funzionato a livello di sistema?

E’ successo che il prodotto interno lordo è crollato di 9-10 punti…

Che cosa vuol dire? In che modo ha a che fare con le banche?

Guardi, quando l’economia viene investita da una crisi così forte, è solo questione di tempo ma il contraccolpo sulle banche è inevitabile. Quando fallisce l’economia, falliscono anche le banche. E questo ovviamente non riguarda solo l’Italia. Poi, certamente, ci sono stati anche i cattivi comportamenti, i conflitti d’interesse, le vere e proprie frodi. Ma non sono questi che hanno messo in ginocchio le banche. Possono spiegare una piccola quota dei problemi, diciamo il dieci per cento tanto per dare l’idea.

E allora che cosa si può fare, almeno per limitare i danni?

L’unica cosa che si può fare è tutelare il risparmio,

come ci chiede la stessa Costituzione che lo considera un interesse pubblico degno di valorizzazione e protezione. Ma questa tutela non è più possibile praticarla come prima a causa del ‘bail in’, questa grandissima stupidaggine decisa dall’Europa.

Perché il ‘bail in’ (letteralmente ‘salvataggio interno’, è una regola che in caso di crisi bancaria consente di arrivare a coinvolgere anche i depositi, sia pure quelli superiori ai 100 mila euro) è una grandissima stupidaggine?

Perché va contro ogni logica: in qualche modo è come se si riversasse sulla parte più debole, il risparmiatore, l’onere di vigilare. Ma chi va in banca è una persona che vuole stare tranquilla, che chiede di poter avere fiducia, non un esperto che punta a lucrare con la speculazione e se ne assume consapevolmente i rischi. La regolamentazione applicata in Europa potrebbe anche funzionare per i mercati finanziari, non per le banche. E qui veniamo al cuore del problema, che è proprio l’intreccio con il mondo della finanza. Vorrei ricordare che nel 1933 una delle prime mosse di Roosevelt, eletto presidente degli Usa nel pieno della Grande Depressione, fu il Glass-Stegall Act, una legge che separava l’attività bancaria tradizionale da quella finanziaria. Si era all’indomani del crollo di Wall Street e quelle regole hanno consentito settant’anni di stabilità. Sotto la spinta di enormi interessi, sono state abrogate e soltanto otto anni dopo, guarda caso, il sistema finanziario mondiale è esploso con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi.

Il problema drammatico è che la finanza internazionale non solo ci ha portato allo sbando, ma non si sta neanche correggendo, come dimostra la presenza sulla scena di bolle speculative da far tremare le vene ai polsi.

Lei recentemente è stato a Palermo per la prima edizione del Ferdinand Pecora Prize, il premio internazionale dedicato a un personaggio chiave della vicenda americana prima citata. Proprio il lavoro della commissione d’inchiesta sulla crisi del ’29 presieduta da questo giudice di origini siciliane, infatti, aprì la strada all’epocale riforma bancaria di Roosevelt. Un minimo di senso delle proporzioni sconsiglia paragoni con la commissione parlamentare sulle banche che in queste settimane sta ultimando i suoi lavori in Italia. Ciò premesso, qual è la sua opinione su tale commissione? C’è chi ne contesta in radice l’utilità.

In democrazia, una commissione parlamentare d’inchiesta in sé è sempre una cosa buona perché porta i problemi nelle sedi istituzionali e li fa emergere nel dibattito pubblico. Che poi faccia bene o male dipende da come viene utilizzata a livello politico e anche da come viene presentato il suo lavoro attraverso i mezzi di comunicazione. Purtroppo nell’informazione economica agiscono condizionamenti molto forti. Quando ben 163 economisti e accademici firmarono un documento critico sulla riforma delle banche popolari e cooperative, il fatto venne totalmente ignorato, con l’eccezione di Avvenire, del Sir e di altre testate di area cattolica. Quanto alla commissione d’inchiesta, temo che l’uso prevalente risulterà alla fine quello strumentale, collegato a quella sorta di campagna elettorale continua in cui siamo immersi.