Stefano Ceccanti, costituzionalista alla Sapienza, un passato da presidente della Fuci (gli universitari cattolici), autore di numerosi saggi sul funzionamento dei sistemi di governo, è tra i maggiori esperti italiani di diritto costituzionale comparato.
Professor Ceccanti, la Costituzione compie 70 anni. Che auguri fa da costituzionalista alla nostra Carta fondamentale?
L’augurio è di avere la stessa capacità espansiva che hanno avuto i suoi principi fondamentali, quelli di una grande democrazia europea, che si sono progressivamente radicati nella società italiana.
All’inizio quell’intesa di alto profilo fu davvero condivisa nelle classi dirigenti, ma nelle rispettive aree politiche, a livello di base, erano ancora diffusi atteggiamenti ostili alla piena accettazione di una democrazia occidentale. A sinistra resisteva il mito della superiorità della Rivoluzione d’Ottobre e delle democrazie popolari, la famosa “doppiezza”, ma anche nell’area cattolica era diffusa l’idea che i modelli “clerical-autoritari” di Spagna e Portogallo potessero garantire meglio l’istituzione ecclesiastica. Invece
la democrazia si è affermata non solo come istituzione, ma anche come mentalità.
Una conquista che però va costantemente rimotivata e alimentata.
139 articoli redatti 70 anni fa, pensati per un sistema sociale, economico e politico lontano “anni luce” da quello attuale. In quali punti la nostra Costituzione “fatica” a regolare la nostra vita democratica?
Il problema è che la parte organizzativa, la seconda, in origine era coerente con la prima. La crescita del consenso ai principi della prima avrebbe imposto una maggiore manutenzione e un più deciso aggiornamento. Ora però si avverte il peso del ritardo sia dal punto di vista del rapporto tra consenso, potere e responsabilità di governo (siamo alla viglia di una probabile instabilità molto profonda e forse non breve) e di riforme a spizzichi nel rapporto centro-periferia (che si manifestano in conflitti eccessivi). Col rischio che il cattivo funzionamento degli strumenti della Seconda Parte possa incrinare il consenso sui Principi della Prima, mettendo per esempio in discussione il carattere rappresentativo della democrazia, affidandola a dosi eccessive di democrazia diretta, di retoriche populiste e di nuove chiusure nazionaliste.
Il nostro è un sistema politico e sociale che fatica sempre di più a includere i più giovani nel circuito della politica e delle scelte fondamentali del Paese. I dati dell’astensionismo giovanile si ripetono infatti desolanti nelle diverse tornate elettorali. Quali articoli si sentirebbe invece orgoglioso di far leggere ad una platea di giovanissimi?
Leggerei loro il nuovo articolo 81, quello del 2012, che ha inserito la stabilità di bilancio e che, in controtendenza rispetto a questa logica, aiuta a non scaricare i debiti di oggi sulle generazioni di domani, come aveva già cercato di proporre un inascoltato Nino Andreatta nei primi anni ‘80. Forse, se ben spiegato, un messaggio più convincente di una retorica sui principi che potrebbe apparire impotente.
E invece se fosse un diciottenne, o un ragazzo con la voglia di impegnarsi in politica, su quali parti imposterebbe una battaglia politica per una nuova avventura di riforma?
Anzitutto partirei dall’articolo 49 sui partiti: non c’è democrazia senza strumenti. I cittadini sono i soggetti e i partiti sono gli strumenti per determinare la politica nazionale. Se questa è la logica quelle parole andrebbero lette soprattutto come impegno per trasferire anche a livello nazionale la logica di funzionamento di comuni e regioni, pur nelle differenze di dimensione.
Se i cittadini devono essere soggetto e i partiti strumento, le regole elettorali e istituzionali devono consentire loro di incidere direttamente sulla scelta del governo, senza che essa sia affidata a lunghe e poco comprensibili liturgie post-elettorali tra i partiti, come sta per accadere.
La Costituzione è il frutto di una contaminazioni di idee, ma anche di compromessi, delle ideologie “forti” del Novecento e dei partiti che formarono la prima Repubblica. Oggi in un ipotetico “tavolo delle idee” per riformare la Carta che culture politiche si affronterebbero, in questa fase di enorme crisi della rappresentanza?
Si tratta oggi solo di riformare la Seconda Parte per renderla più coerente con la Prima, perché principi forti hanno bisogno di regole istituzionali forti. Da questo punto di vista è ragionevole attendersi il concorso delle forze di centrosinistra e anche di larga parte del centrodestra perché, pur con tutti i loro limiti, hanno coscienza dell’eredità del patto costituente e anche dei limiti, essendosi sperimentate al Governo. Purtroppo non mi attendo nulla dal M5S perché esso si limita a fotografare le ragioni della protesta o a fuggire in una sorta di “benaltrismo costituzionale” proponendo di azzerare la democrazia rappresentativa.
I cattolici, democratici e liberali, se vogliamo usare una distinzione di schieramenti nelle diverse accezioni dell’impegno politico, hanno ancora una visione istituzionale da traslare in un futuro cantiere di revisione della Costituzione?
Non credo che i cattolici come tali rappresentino un qualcosa di univoco e di compatto né sul piano politico né su quello delle visioni della Costituzione. Peraltro le differenze ci sono sempre state ed erano solo mascherate dall’obbligo di convergenza politica dovuto ai riflessi della Guerra Fredda. Esistono però, per fortuna, sia nel centrosinistra sia nel centrodestra (in questo caso in modo minore) anche impostazioni di cattolicesimo liberale più avvertito che sanno conciliare fedeltà ai principi e aggiornamento degli strumenti, come nel grande protagonismo che si ebbe nei primi anni ‘90 col movimento referendario.
Senza scomodare le categorie classiche del capitale e del lavoro il grande tema della politica riguarda le disuguaglianze. Di ogni genere: sociali, economiche, di nascita, di cittadinanza, di colore. La Costituzione del 1948 ha ancora la modernità per contrastare la stratificazione di disuguaglianze di una società complessa?
La vera modernità sta nell’articolo 11 della Costituzione, nell’apertura alle condivisioni della sovranità. Pensare oggi di garantire sviluppo e ridurre le diseguaglianze agendo solo nei margini angusti dello Stato nazionale significa andare incontro a gravi delusioni. Per questo
la differenza forse più importante per la prossima scadenza elettorale è quella tra chi immagina uno sviluppo costituzionale connesso con una nuova sovranità politica della zona euro, sulla base delle proposte lanciate da Macron, e chi immagina invece una forza di “sovranismo nazionale” che ci può portare solo a una decrescita infelice.
Quale articolo prenderebbe tout court da un’altra carta costituzionale e lo inserirebbe nella nostra Carta?
L’elezione popolare diretta del Presidente da quella francese e la composizione del Senato, come somma di delegazioni dei Governi regionali, dalla Germania.
Le bicamerali hanno fallito, i comitati di saggi anche. Quale potrebbe essere la “molla” democratica per aggiornare la Carta con il più ampio e trasversale contributo dei partiti e della società civile?
Io mi atterrei anche stavolta all’articolo 138: intesa parlamentare e poi referendum. Cercando tuttavia di mantenere un consenso forte in Parlamento, corrispondente alla maggioranza dei voti validi degli elettori, fino a fine percorso, in modo da affrontare con maggiori chances il verdetto referendario. Può sembrare un’utopia in questa fase, ma sarà tale la difficoltà dopo le elezioni politiche, che le forze responsabili saranno spinte a convergere.