“Eravamo animati da una voglia di impegno sociale e di giustizia che precedeva il Sessantotto, eravamo una generazione cresciuta durante il boom economico ma con i piedi piantati negli anni Cinquanta, avevamo conosciuto il dopoguerra”. Si presenta così Gianni Bonini, e ricorda i nonni a Settignano, in una casa priva di corrente elettrica e con servizi igienici ridotti all’essenziale. Classe 1950, uno di quegli “angeli del fango” che durante l’alluvione di Firenze scavarono nella melma per recuperare e mettere in salvo i volumi finiti sott’acqua, durante l’università milita a fianco dei doposcuola popolari, in particolare quello della Casella, vicino alla Comunità dell’Isolotto. Nella primavera del 1970 è tra i fondatori del Centro del Manifesto di Firenze. Saggista e vicepresidente del Centre International de Hautes Ètudes Agronomiques Méditerranéennes, da 30 anni si occupa di energia.“Il Sessantotto – esordisce – nasce sull’onda di una crescita economica e sociale straordinaria del nostro Paese, senza eguali nel mondo di allora, e nell’Italia della televisione e dell’alfabetizzazione del maestro Manzi. Nasce in generazioni che potevano permettersi di coltivare ideali ‘alti’ andando oltre l’obiettivo del benessere economico immediato”.
È arrivato dopo il Concilio e i suoi potenti documenti che hanno scosso il mondo. Si può ipotizzare un legame tra i due eventi?
L’influsso del Concilio fu straordinario perché mise la Chiesa di fronte alle domande “universali”. Eravamo tutti pieni di ideali e di voglia di impegno sociale. Giovanni XXIII aprì la Chiesa alle grandi masse che si sentirono sollecitate ad impegnarsi, soprattutto i giovani.Tra il 1966 e il 1967 iniziano i movimenti del dissenso cattolico. Io ho lavorato fino al 1975 a stretto contatto con una comunità della Casella vicina all’Isolotto, con persone formate dalla cultura lapiriana. Per noi ragazzi era importante l’impegno nei quartieri per “servire il popolo”; una spinta che trovava la sua matrice nel Concilio. Nel 1968 io ravviso
una forte componente cattolica derivata dal Concilio e affiancata in un momento successivo dal marxismo che ha finito per sovrapporvisi gradualmente e diventare egemone.
Una componente, quest’ultima, strategica per la crescita del Pci, ma è importante precisare che il nucleo forte è quello nato dall’impegno sociale e dall’apertura della grande assise conciliare.
Quale il suo giudizio sul Sessantotto?
In Italia è stato un grande movimento di liberazione nei rapporti interpersonali e sociali, di promozione sociale ed economica nella scuola e in fabbrica.
Ha però seminato il germe della distruzione, soprattutto nella scuola con riferimento al principio di educazione e al senso della gerarchia.
È tuttavia importante non confondere il 1968 italiano con i movimenti americani e con quello francese. Il nostro ha certamente conosciuto una componente hippy, ma quella maggioritaria nasceva, come ho già detto, dall’apertura conciliare e si è sviluppato a scuola e in fabbrica e in tempi brevi è diventato un movimento politico a tutti gli effetti.
Qual era lo scenario politico di quegli anni?
Negli anni Sessanta il centrosinistra innescò una riforma che non seppe governare politicamente. La scuola media unificata, obbligatoria e gratuita; la sanità; lo statuto dei lavoratori; la nazionalizzazione dell’energia elettrica: tutte grandi conquiste sociali che democristiani e socialisti non riuscirono però a governare e incanalare all’interno di una cultura riformista e liberale. La verità è che queste conquiste, in particolare lo statuto dei lavoratori, sono diventate oggettivamente trampolino per una dilatazione delle lotte che per alcuni aspetti, ancorché minoritari, sono sfociate anche nella way out del terrorismo.Ma per inquadrare correttamente il 1968 nostrano occorre uscire dai confini nazionali e darne una lettura “politica”.
Che intende dire?
Si tratta di un movimento di liberazione/distruzione che si sviluppa all’interno di uno scenario geopolitico internazionale troppe volte non considerato.Eravamo un Paese uscito dalla guerra sconfitto, bombardato, economicamente rovinato, membro della Nato, che con Fanfani e Moro riusciva a muoversi in maniera straordinariamente abile dentro la politica internazionale sfruttando gli spazi lasciatigli dalla guerra fredda e individuando nei Paesi emergenti del Mediterraneo interlocutori interessanti. È limitativo dare del 1968 italiano un’interpretazione tutta endogena perché si è sviluppato all’interno di un contesto internazionale molto complesso che interagiva con il movimento stesso. La destabilizzazione italiana poteva fare comodo a molti, anche per la “competizione” di allora sul Mediterraneo.
Lettura “politica”: che significa?
Oggi si tende a rileggere il 1968 in termini di diritti civili ma è riduttivo perché questa componente è nettamente minoritaria rispetto alla cultura politica che lo caratterizza. La voglia di andare nei quartieri popolari, vivere con la gente, fare battaglie per il diritto allo studio, al lavoro, per il salario, era preponderante dopo il primo momento d’impegno sociale e culturale più vago. Proprio questa canalizzazione politica porterà alla formazione dei movimenti della sinistra extraparlamentare. Nella primavera del 1970 con un gruppo di persone uscite dal partito comunista abbiamo costituito il Centro del Manifesto di Firenze. Svolgevo volontariato nei quartieri popolari facendo dopo scuola ai ragazzi. Nelle nostre assemblee tentavamo di portare quell’esperienza sociale su un piano più politico che ci portò ad appoggiare la presentazione del Manifesto alle lezioni politiche del 1972 dove prendemmo un misero 0,6%.
Qualcuno afferma che il 198 è stato una sorta di esplosivo che ha fatto saltare in aria tutti i paradigmi consolidati ma che in parte è scoppiato tra le mani di chi lo maneggiava. Che cosa non ha funzionato?
Per l’incapacità di socialisti e democristiani di governarlo e canalizzarlo verso una cultura riformista e liberale,
alla fine il movimento è diventato la fortuna elettorale del Pci che se ne è “appropriato”conquistando alle amministrative del 1975 la grande maggioranza delle città italiane e diventando in quell’occasione il primo partito italiano. Tranne la componente molto minoritaria che imbocca la deriva della lotta armata, nella sua componente largamente maggioritaria confluisce nel partito comunista che, in estrema sintesi, ne assorbe la spinta propulsiva del 1968. Con la conseguenza che alcuni movimenti politici più “strutturati” – tra cui il Manifesto – guardano al Pci in termini più di alleanza che di contestazione in vista di una conquista elettorale del potere. Craxi fece poi un tentativo di recuperare un pezzo del 1968 in chiave socialista-riformista, ma forse era tardi e il quadro geopolitico si avviava ad uscire dal bipolarismo Usa-Urss.