Un messaggio di rispetto per le culture e in particolare l’islam e la richiesta tornata oggi di attualità di guardare ai fenomeni della radicalizzazione e del terrore con “lucidità”, senza cioè cadere nel rischio di pericolose generalizzazioni. È l’ambasciatore italiano in Algeria, Pasquale Ferrara, a tracciare l’insegnamento che lasciano oggi i 19 tra sacerdoti, monaci e suore, uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996, che verranno beatificati per martirio. Tra loro, il vescovo di Orano, il domenicano Pierre-Lucien Claverie, e i sette monaci trappisti di Tibhirine. “Le religioni non sono mai parte del problema come purtroppo spesso si fa credere”, dice l’ambasciatore Ferrara. “Ma possono essere un fattore importante non solo per la soluzione dei conflitti ma anche come fattore di sviluppo umano. Una delle cose in cui erano impegnati questi monaci, era il loro stare accanto a quello che Papa Francesco chiama oggi le periferie”.
Ambasciatore, chi erano i monaci di Tibhirine?
I monaci di Tibhirine si erano istallati sui monti dell’Atlas poco lontano da Algeri. Era una comunità monastica sostanzialmente contemplativa, francese, che aveva instaurato con la popolazione locale, un rapporto straordinario di interazione e di rispetto. È fondamentale sottolineare come questa comunità non aveva come obiettivo il proselitismo, cioè la conversione dei musulmani al cristianesimo ma la contemplazione e il servizio alle comunità locali e, per questo, erano visti come punto di riferimento. Il primo segnale che emerge dalla loro testimonianza è un profondo rispetto per le culture, e anche per l’Islam. In particolare il priore della comunità, scrisse prima di essere assassinato, e cioè tra il 1993 e il 1994, un famoso testamento spirituale in cui diceva di non cercare il martirio perché
sapeva che il martirio avrebbe lasciato un’immagine negativa di questo popolo che lui amava, di questo Paese in cui aveva scelto di restare fino a condividerne l’estremo pericolo.
Come erano visti e come sono visti oggi in Algeria questi testimoni?
Pur essendo rappresentanti della ex presenza coloniale francese, i monaci erano riusciti non solo a inserirsi ma anche ad essere accettati dalla popolazione che li considerava come parte del loro contesto sociale. Non volevano essere abbandonati dai monaci e la decisione di rimanere fu presa congiuntamente, pur sapendo benissimo di essere in una situazione di minaccia. Alle volte però dimentichiamo che questi monaci e religiosi, assassinati in quegli anni, sono stati vittime di una tragedia più ampia in cui fu coinvolto tutto il popolo algerino. Il priore nel suo testamento sottolineava come
le prime vittime del terrore interno in Algeria erano gli algerini e i musulmani stessi:
da una parte ci sono i 19 religiosi, dall’altra però – e la Chiesa cattolica algerina lo ha riconosciuto – c’è il sacrificio di 99 imam che furono assassinati perché non vollero sottoscrivere la fatwa che giustificava la violenza nei confronti degli stranieri su base religiosa. A loro si aggiungono i 150mila algerini e algerine vittime di questa vicenda tragica.
L’Algeria è riuscita oggi a fare pace con questa drammatica pagina della sua storia?
L’Algeria è uscita con difficoltà ma con determinazione da questo periodo tragico della sua storia ed uno degli strumenti, posti in campo, è quello della riconciliazione nazionale che è stato portato avanti con forza ed è sfociato in un’amnistia di tutti coloro che non si erano macchiati di reati di sangue. Questo ha acconsentito di rimettere il Paese in piedi. Ovviamente le ferite sono rimaste e sono profonde: non c’è una sola famiglia in tutta l’Algeria che non abbia avuto un parente o un vicino colpito da questo terrore insensato. Il ricordo di quegli eccidi impressi nella memoria dei bambini di allora si sono tramandati per generazioni tanto che oggi si parla addirittura di trauma trans-generazionale. Ma la cosa positiva è che da questa sua drammatica storia, l’Algeria ha imparato una lezione molto importante:
una simile tragedia non deve ripetersi mai più.
Nel suo testamento, il priore della comunità di Notre-Dame d’Atlas, padre Christian De Chergé scriveva: “Non posso auspicare una morte così. Mi sembra importante dichiararlo. Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio… So bene il disprezzo del quale si è arrivati a bollare gli algerini globalmente presi. Conosco anche le caricature dell’Islam che un certo islamismo incoraggia”.
È un messaggio che va ben al di là della storia algerina. E coinvolge il nostro atteggiamento nei confronti del terrorismo che si ammanta di presunte ragioni religiose e che come hanno detto i vescovi algerini nel loro comunicato, sfigura la religione dell’islam, come sfigura ogni religione. Il messaggio di Tibhirine dice che i terroristi non hanno religione e chiede lucidità, la capacità cioè di saper distinguere ciò che è terrore omicida dalle religioni. È fondamentale. Se c’è un messaggio che bisogna recepire da questo testamento di padre De Chergé è quello di non cadere nelle generalizzazioni perché non aiutano ad avere questa lucidità.