“Pronto, qui è il Comitato Olimpico della Corea che parla”.
Penso subito: “Si sono accorti delle mie doti ciclistiche e mi convocano a far parte del team nazionale”.
Questo pensiero mi passa per la mente come una saetta, poi una seconda riflessione: “Ma ai Giochi Olimpici invernali non c’è il ciclismo”. Allora? “Mi concentro ed ascolto con più attenzione chi mi sta parlando. Che si tratti di uno scherzo?”.
“La chiamiamo – continua il mio interlocutore – perché desideriamo che sia uno dei portatori della torcia olimpica, un ‘tedoforo’”.
“Mi scusi – replico – ci deve essere un errore. Io sono Vincenzo Bordo e sono un italiano”.
“Sì, lo sappiamo”.
“Ma io sono uno straniero – continuo -”.
“Si, è proprio per questo che la convochiamo. Lo spirito dei giochi olimpici è uno spirito di fratellanza universale e di accoglienza e con questo gesto vorremmo dire ai nostri connazionali che tutti quelli che vivono e lavorano qui sono parte di questo popolo, senza discriminazioni o pregiudizi e fanno parte di questa stupenda storia che stiamo costruendo insieme”.
È andata proprio così la telefonata tra gli organizzatori dei giochi olimpici invernali di PyeongChang (9-25 febbraio 2018) e padre Vincenzo Bordo, missionario oblato di Maria Immacolata. In Corea dal 1990, padre Bordo si occupa della pastorale degli homeless e dei ragazzi di strada. Nonostante deve correre da una comunità a un’altra affidata alle sue cure per celebrare la messa, trova un attimo per raccontarci la sua storia.
Adesso sarà tedoforo.
Mi ha colpito che il Comitato Olimpico mi abbia chiamato per portare la torcia in quanto sono straniero. Il loro messaggio era questo:
gli stranieri non solo sono parte integrante di questa società ma anche contribuiscono alla crescita del Paese e alla storia coreana.Questo il significato della scelta fatta di coinvolgerla?
Sì, la Corea ha dimostrato grande attenzione agli stranieri. Non sono una minaccia, ma un’opportunità.
Qual è la sua missione in Corea?
Sono arrivato nel 1990 e da allora come missionario Oblato di Maria Immacolata mi sono impegnato per le “nuove povertà” nella periferia della città di Seongnam, giusto alle porte di Seoul. Ho dato avvio a un Centro, “Casa di Anna” (i primi passi sono stati mossi nel 1998, ndr), che offre ogni giorno 500 pasti serali ai poveri, più i servizi di doccia, donazione di vestiti, di dormitorio per 30 homeless, consulenza legale, per il lavoro, educazione all’alcol, una scuola settimanale, una piccola fabbrica.
Un sostegno ai tanti poveri, insomma?
Non si tratta di dare da mangiare a dei poveri che vivono sulla strada ma desideriamo, mentre rispondiamo ai bisogni primari, donare loro una nuova opportunità, un nuovo inizio nella vita: mangiare, lavorare e dormire, supportato da tanti servizi indispensabili in questo reinserimento nella vita.
Dare una nuova dignità a chi l’ha persa.
Tra l’altro, abbiamo anche quattro case per ragazzi di strada dove ospitiamo 40 ragazzi, e un favoloso bus, che va in giro di notte, dalle 18 alle 24 per cercare, curare, incontrare i tanti ragazzi che vivono sulla strada.
Come può lo sport unire in un Paese diviso?
I giornali locali parlano dello sport come un “cavallo di Troia”. Con la scusa e l’opportunità dello sport sarà magari possibile riprendere un dialogo che si è interrotto da ben due anni con picchi di tensione altissima. Quindi queste Olimpiadi sono viste come una buona opportunità per ricominciare un dialogo positivo e costruttivo.
Quali risvolti?
La Corea ha investito molto su queste Olimpiadi e spera non solo in un ritorno economico ma anche in un ritorno di immagine per crescere come un Paese prospero, sicuro e sul quale si può fare affidamento anche per gli investimenti stranieri.
È difficile fare il sacerdote in Corea?
È stupendo. La gente è buona e generosa. Sono disponibili al nuovo e non si richiudono nella paura dello sconosciuto, del diverso. Inoltre la Chiesa è aperta non solo al suo interno ma anche alla missione. Ormai sono centinaia e centinaia i sacerdoti e i religiosi impegnati in altri Paesi di missione. È una Chiesa giovane.