Sono molteplici le notizie che riguardano il mondo della scuola e che nelle ultime settimane hanno occupato le prime pagine dei giornali. Spesso si tratta di violenze subite dal corpo docente, come è accaduto alla professoressa Franca Di Blasio, docente di italiano e storia presso l’Istituto Superiore Professionale “Majorana-Bachelet” di Santa Maria a Vico (Caserta), che è stata sfregiata da un alunno, o al professor Pasquale Diana, vicepreside della Scuola Secondaria di I grado “Leonardo Murialdo” di Foggia, colpito alla testa e all’addome da pugni sferrati dal genitore di un alunno che il giorno prima era stato rimproverato. Sono notizie gravi che rappresentano la massima espressione di un rapporto incrinato fra le famiglie e l’istituzioni scolastica.
Certo, fortunatamente fatti di tale gravità non accadono tutti i giorni, tuttavia basta conoscere un insegnante per rendersi conto di quanto sia diventato difficile lavorare nel mondo della scuola. Che cosa si è inceppato nel meccanismo dell’istruzione e dell’educazione? Cosa è accaduto perché quello che dovrebbe essere un luogo di formazione e di crescita è invece diventato un terreno di scontro? Sono domande che non possiamo eludere, perché è a partire dalla scuola che dipende il futuro di ogni paese civile.
È evidente sotto gli occhi di tutti che quello che è venuto a mancare è un patto educativo fra gli insegnanti e i genitori. Scuola e famiglia non sono più uniti, pur nella distinzione dei propri ruoli, nel compito della crescita dei giovani. Spesso la scuola è percepita dalle famiglie non più come un’istituzione educativa alla quale appoggiarsi per crescere i propri figli, ma piuttosto come un ente al quale richiedere prestazioni. C’è una visione consumistica della scuola, come se essa dovesse erogare dei servizi i quali, se non corrispondono alle proprie aspettative di clienti, possono sempre e comunque essere criticati. Ecco che un normale rimprovero dell’insegnante all’alunno, volto comunque a fargli capire i propri errori e da lì partire per correggersi e crescere, diventa per le famiglie, nella logica del venditore-cliente, un motivo di attrito.
Non solo è incrinato il rapporto fra scuola e famiglia, ma anche nella stessa famiglia mancano sempre più quei significativi spazi educativi di cui bambini e ragazzi hanno bisogno. Il costo della vita e il sempre più basso potere d’acquisto ha costretto, ormai da decenni, entrambe i genitori a lavorare. Proprio per tale motivo, i momenti di vita familiare sono possibili solo negli orari dei pasti e, non di rado, neppure due volte al giorno. È forse questa mancanza di presenza dei genitori nella vita ordinaria che li porta a proteggere più del dovuto i propri figli: quando arriva una nota o un rimprovero scritto, forse quasi per istinto, i genitori si sentono spinti a mostrare solidarietà verso i propri figli, quasi a “risarcimento” della mancata presenza, comunque imposta dai ritmi della vita di oggi. A causa di questa dinamica, i genitori non chiedono spiegazioni ai docenti, ma partono in quarta attaccandoli. Solo a seguito dei dovuti chiarimenti, se il genitore è disposto a comprendere come stanno le cose, si arriva a un reale comprensione di come stanno le cose. Non si tratta di fatti eclatanti come quelli riportati in apertura, ma sono comunque deleteri e deteriorano il clima sano che invece si dovrebbe respirare a scuola. Purtroppo non ci si rende conto del danno educativo che si reca agendo in questo modo. Giudicare l’operato di un insegnante, davanti ai propri figli e sulla base dei racconti forniti dagli stessi, è quanto di più nocivo possa accadere nel campo dell’educazione: i figli saranno portati a considerare di scarso valore quanto quotidianamente viene proposto dai docenti, perché i figli si fidano naturalmente del giudizio dei propri genitori.