“Paolo VI sarà santo quest’anno”. Lo ha annunciato, a sorpresa, il Papa, durante l’incontro con i sacerdoti e i preti romani, che si è svolto a porte chiuse il 15 febbraio nella basilica di San Giovanni in Laterano. “Un annuncio importante” per la vita della Chiesa, commenta don Angelo Maffeis, docente presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e presidente dell’Istituto Paolo VI. Il Sir lo ha interpellato per un commento a caldo.
Qual è la portata dell’annuncio, sia pure ancora informale, della prossima canonizzazione di Paolo VI?
Certamente è un annuncio importante. È il compimento del processo di riconoscimento della santità di Paolo VI: la beatificazione è stato il primo passo, questo annuncio lo propone alla Chiesa universale. Anche se già quando Montini è stato eletto Papa e ha esercitato il suo ministero a servizio della Chiesa universale era già di per sé una figura significativa per la comunità ecclesiale, con questa nuova tappa si dà compimento al processo di riconoscimento della santità.
Alcuni ritengono che ci sia quasi una sorta di automatismo, nel proclamare la santità dei Papi. A mio avviso, invece, è un modo per affermare, in rapporto alla vicinanza dei pastori e al loro modo di esercitare il ministero, un principio che è già nella Lumen gentium: l’idea, cioè, che la vocazione universale alla santità trovi una conferma anche in chi ha esercitato il ministero a servizio della Chiesa universale.
C’è un legame, in altre parole, tra la santità e il ministero: come si legge nel capitolo cinque della Lumen gentium, per i pastori la carità diventa carità pastorale. È il segreto della santità, l’anima che sostiene l’esercizio pastorale.
Paolo VI è stato il Papa della formazione di Bergoglio e il Papa del Concilio. Francesco ha detto di recente che 50 anni sono pochi, occorre almeno un secolo perché un Concilio si sedimenti nella prassi della Chiesa. Quali sono, secondo lei, le intuizioni di Paolo VI da realizzare ancora?
Certamente ci sono alcuni processi avviati e che già hanno portato frutto, e non vanno negati. Ma ci sono anche processi che hanno una durata storica molto più lunga dell’esistenza di una persona, e questi sono gli aspetti ancora da approfondire e realizzare.
Uno dei tratti più caratteristici del modo in cui Paolo VI ha portato avanti il Concilio è la riforma liturgica: lo sforzo per rendere la comunità partecipe del mistero celebrato è ancora un compito da realizzare, non basta tradurre i testi liturgici perché la partecipazione sia automatica.
L’altro compito in cui occorre ancora esercitarsi è un tratto peculiare del pontificato di Paolo VI: entrare in relazione con la cultura, con il mondo della cultura in tutti i suoi aspetti e le sue diverse espressioni. Si tratta di uno dei versanti più urgenti dell’evangelizzazione, al quale la Chiesa non può sottrarsi e che assume forme sempre nuove.
Certamente il tema del rapporto tra fede e cultura è uno dei pilastri del pontificato di Montini: il fatto che il Papa ne riconosca la santità spazza via anche alcuni equivoci che derivano da letture superficiali del magistero di Bergoglio, definito “sbilanciato” soltanto sul versante sociale…
Papa Francesco testimonia continuamente con il suo magistero la necessità della missione culturale della Chiesa, ma lo fa a partire da una cultura non più europea, che assume più evidenza e peso maggiore perché si fa portatrice di punti di vista lontani dalla tradizione da cui è stata segnata fino ad ora la concezione della missione della Chiesa cattolica.
Bergoglio porta all’evidenza il punto di vista del Sud del mondo, il cui volto non cessa di mostrare nei suoi viaggi: un rilievo, questo, di grande importanza anche per la missione culturale della Chiesa.
Uno dei testi di Paolo VI maggiormente citati da Papa Francesco è la Populorum progressio, in cui si afferma che lo sviluppo è il nuovo nome della pace e che la questione sociale è ormai una questione capitale. È lui l’unico “leader mondiale” ad averlo capito? Cinquant’anni dopo l’enciclica di Montini, quanto distanti sono ancora le politiche degli Stati dall’affrontare la “cultura dello scarto” e combatterla?
Uno degli aspetti messi in evidenza da numerosi commentatori e studiosi della Populorum progressio è che, per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la questione sociale si sviluppa considerando il punto di vista del Sud del mondo: non più, quindi, in una prospettiva europea o centrata sui Paesi ricchi e sviluppati, ma prendendo in considerazione anche i diritti di coloro che ne sono esclusi. È un aspetto, questo, che Papa Francesco valorizza con il suo magistero. Basti pensare ai due aggettivi che Paolo VI abbina al progresso umano: “integrale”, cioè immagine di una persona umana che non sia ridotta ad una sola dimensione ma venga messa in condizione di sviluppare tutte le sue virtualità, e “sostenibile”, perché lo sviluppo non può essere un privilegio esclusivo di alcuni. Non c’è progresso se non è di tutti. Mi sembra una concezione di assoluta attualità, che trova il suo ancoraggio nella visione antropologica cristiana: o è così, o non è all’altezza del Vangelo.
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