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Usa, la protesta dei giovani e la mobilitazione contro le armi della Chiesa

Maddalena Maltese, da New York

Sono trascorsi oltre 7 giorni dalla morte di Carmen, Meadow, Peter, Nicholas, Christopher, Aaron, Luke, Alaina, Jamie, Martin, Alyssa, Helena, Scott, Joaquin, Cara, Gina e Alexander. I nomi degli studenti e dei docenti della Marjory Stoneman Douglas High School, nella contea di Broward, in California, assassinati da un ex compagno di scuola, Nickolas Cruz, vengono recitati quotidianamente sui media, nelle messe e nelle funzioni, nelle conversazioni sorprese in strada, sui cartelli di protesta. Sono la preghiera, il lamento laico, il grido disperato, il vessillo di orgoglio per chiunque pronunciandoli aggiunge “mai più”. Mai più una sparatoria a scuola. Mai più altro sangue. In questa settimana, di ciascuno di questi morti innocenti, abbiamo conosciuto i desideri, le attese, le vite, gli ultimi gesti eroici prima di essere falcidiati dai colpi del fucile d’assalto AR-15.

Durante le interviste e ai funerali abbiamo dato un volto alle loro famiglie, ai compagni di classe miracolosamente salvi, agli insegnanti coraggiosi che li hanno difesi. E questo mentre le domande sull’ennesimo massacro, sul controllo delle armi, sulle vendite prive di garanzie, sulle malattie mentali di tanti dei killer continuano come spine a ferire la coscienza degli Stati Uniti e a sollevare azioni di protesta, inattese, in tutto il Paese. A guidarle sono i teen-ager, i compagni delle vittime ma anche studenti di decine di scuole che si sono riuniti nei parchi, nelle sale cittadine e hanno indetto veglie e comizi, acceso candele, firmato petizioni. Il 24 marzo hanno organizzato una marcia su Washington, sul modello di quella di Martin Luther King, per esigere che

“le loro vite e la loro sicurezza diventino una priorità e si ponga fine alla violenza armata e alle sparatorie di massa nelle scuole”.

Intanto ieri, mercoledì, si sono sdraiati in un flash mob commemorativo, sia dinanzi alla sede del governatore della Florida, che davanti alla Casa Bianca, mentre un gruppo di loro, sopravvissuti alla sparatoria di mercoledì 14 febbraio, assieme ad alcuni genitori delle vittime incontravano il presidente Trump per chiedergli di cambiare legislazione e di garantire la loro sicurezza. “Devi trovare un rimedio – ha detto il padre di una degli studenti -. Sono qui a dar voce a mia figlia, perché lei non ha più voce”  Il presidente nel suo discorso, dopo le contestazioni per le sue fragili e deboli dichiarazioni dopo l’accaduto, si è mostrato favorevole alla possibilità di dotare di armi anche gli insegnanti e ha promesso maggiori controlli sul passato degli acquirenti di armi e sulla loro salute mentale. Nel contempo il presidente aveva chiesto al Procuratore generale di rivedere le norme sulle armi d’assalto, ma questo rimane al momento un parere consultivo. Trump e il governatore della Florida hanno declinato l’invito ad unirsi al dibattito pubblico che ieri sera si è tenuto al BB&T Center di Sunrise, trasmesso in diretta dalla Cnn. Gli studenti, i genitori degli assassinati, gli insegnanti non hanno risparmiato domande dirette, scomode, impopolari, al senatore repubblicano Marco Rubio, ai democratici Bill Nelson e Ted Deutch, a Dana Loesch,portavoce della National Rifle Association (Nra) la potente lobby delle armi e allo sceriffo della contea, Scott Israel.

Tra i primi a prendere la parola sono stati i fratelli o i genitori delle vittime. Fred Guttenberg, padre di Jamie, incalza il senatore Rubio sulle deboli posizioni assunte da lui e dal governo e chiede di agire concretamente e non tergiversare, dichiarando illegali i fucili semiautomatici, “il vero problema”. Il senatore repubblicano cerca di spiegare che il problema non è solo quel tipo di fucile, ma gli oltre 20mila modelli di armi fuorilegge “che vengono venduti senza controllo e nonostante le proibizioni”. Ma la platea con applausi, urla e fischi chiede impegni concreti, soprattutto quando a farsene portavoce è Cameron Kasky, uno degli studenti sopravvissuti che con decisione chiede a Rubio l’impegno di rinunciare ai finanziamenti offertegli dalla Nra, che secondo alcune inchieste giornalistiche ammontano a tre milioni di dollari. Anche qui giustificare il sostegno della lobby diventa difficile e nonostante gli altri senatori provino a calmare le acque, la partita si gioca tra l’unico rappresentante del governo e un pubblico deciso al cambiamento. Questa determinazione a conclusione della serata fa dire a Rubio che sosterrà leggi che prevedono l’innalzamento dell’età per l’acquisto di armi, rivedrà il suo sostegno alle riviste specializzate in tali vendite, chiederà un severo controllo sulla salute mentale degli acquirenti. Contestata la presenza della Loesch che ha ribadito, con diverse sfumature, la necessità di maggiori controlli di sicurezza e di agenti nelle scuole e un serrato check up su chi soffre di disturbi psichici. “Questo non significa sostenere quanto i ragazzi ci chiedono e cioè meno armi” ha dichiarato lo sceriffo Scott Israel, che ha poi invitato gli studenti a decidere del futuro del Paese alle urne, nelle prossime elezioni del 2018, scegliendo candidati affini ai loro valori. “Voi potete farcela”.

Il dibattito, durato due ore e 30, avrà conseguenze politiche non di poco conto e c’è attesa per la riapertura del Congresso lunedì, quando il primo punto all’ordine del giorno saranno proprio

le richieste degli studenti di una periferica contea del Paese, che colpiti da una tragedia personale hanno messo in rilievo le fragilità di un sistema che si trincera dietro un emendamento costituzionale senza affrontare i nodi del problema.

Sono infatti trascorsi 14 anni dalla scadenza del divieto di possesso delle armi d’assalto e nulla si è fatto per cambiare radicalmente le norme e questo anche quando ciascuno dei maggiori partiti del Paese governava sia alla Camera che al Senato. La stasi politica non ha però riguardato il mercato, che ufficialmente registra in circolazione 310 milioni di armi da fuoco, su una popolazione di circa 326 milioni di persone.

Anche i rappresentati della Chiesa Usa si mobilitano. I vescovi e i cardinali statunitensi hanno espresso la loro posizione sui siti delle rispettive diocesi e sui social media, sottolineando particolarmente la responsabilità dei legislatori nel prevenire queste stragi. “Spieghiamo ai nostri rappresentanti, da noi eletti, che le armi e le munizioni che rendono possibile un tale massacro non hanno posto nella nostra cultura”, ha dichiarato il cardinale di Chicago, Blase Cupich; mentre in un tweet il cardinale di Boston Seán O’Malley ha scritto: “I nostri pensieri e le nostre preghiere devono essere uniti all’azione, possiamo e dobbiamo fare di più per prevenire tali attacchi”. Secondo American Magazine, la rivista dei Gesuiti, la Chiesa può accompagnare questo agire con un supporto logistico concreto: non solo mobilitando le oltre 1.700 parrocchie, alcune delle quali nei luoghi delle stragi, ma anche indirizzando la ricerca medico-scientifica sulle conseguenze in termini di vittime e di costi della spropositata violenza delle sparatorie di massa. Questa settimana un articolo della rivista di politica The Atlantic ha rivelato che la Nra, nel 1996, ha appoggiato una legge che limita i fondi federali destinati alla ricerca sulle armi e al numero di omicidi, suicidi e sparatorie accidentali provocate dal possesso di un fucile o di una pistola. E qui la rivista dei gesuiti incalza spingendo “i 600 ospedali cattolici sparsi nel Paese a finanziare loro una ricerca indipendente che dia prova dei risultati della violenza. La Catholic Health Association, che rappresenta queste istituzioni, ha espresso il proprio sostegno per affrontare la violenza armata e comprendere le cause e le vittime di questa escalation di conflitti”.

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