Individualismo e intimismo, ma anche autoreferenzialità e spiritualismo: si possono tradurre così le due parole, per noi esotiche – pelagianesimo e gnosticismo –, che fanno da cardine tematico nella lettera Placuit Deo, indirizzata dalla Congregazione per la dottrina della fede a tutti i vescovi cattolici del mondo lo scorso 22 febbraio, giorno in cui ogni anno cade la festa liturgica della Cattedra di Pietro.
La dottrina di Pelagio sulla salvezza finale – contro cui, all’inizio del V sec., dibatterono teologi come Girolamo e Agostino – e le teorie che gli gnostici elaborarono sulla medesima questione soteriologica (nel greco biblico e patristico “salvezza” si dice “sotería”) rimontano difatti ai primi secoli della storia della Chiesa e rimangono perciò molto distanti dalla consapevolezza credente contemporanea. Sono argomenti che a stento si studiano nelle facoltà teologiche e la maggior parte della gente non ne sa nulla.
Tuttavia che pelagianesimo e gnosticismo risultino, ai nostri giorni, di difficile comprensione non vuol dire che quanto significano non continui a mantenere – purtroppo – una certa attualità.
Non che – com’è spiegato nella lettera firmata da mons. Luis Ladaria – le “due antiche eresie” continuino a sopravvivere tali e quali le pensarono Pelagio e gli gnostici, giacché gli scenari ecclesiali sono oggi molto diversi rispetto a quel lontano passato. Certamente, però, si registrano diffusamente atteggiamenti che “assomigliano” a quelle errate interpretazioni della salvezza. Ancor oggi ci sono cristiani che pretendono di meritarsi la salvezza da se stessi, esclusivamente in virtù della propria dirittura etica o del proprio sforzo ascetico, più che per l’offerta che Cristo Gesù, nella sua Pasqua, ha fatto di sé a Dio Padre in favore di tutti gli esseri umani e del cosmo intero. E ce ne sono altri che presumono di raggiungere la salvezza grazie al loro pio sentimento religioso, di cui si sentono del tutto appagati ed entro cui si arroccano, astraendosi dall’umile e paziente comunione con gli altri e rinunciando al servizio della carità e alla testimonianza del vangelo nel mondo e nella storia.
La lettera della Congregazione considera queste due tendenze – il neo-pelagianesimo e il neo-gnosticismo – come delle vere e proprie “deviazioni”, in cui alcuni individui rischiano di cadere. Ma già papa Francesco le ha definite delle pericolose “tentazioni” per la Chiesa tutta quanta. Lo ha scritto in Lumen fidei 47 e lo ha ripetuto in Evangelii gaudium 93-94. In particolare, per quanto riguarda la Chiesa italiana, lo ha detto con tono severo il 10 novembre 2015, intervenendo a Firenze nel V Convegno ecclesiale nazionale, quasi dando l’impressione di pronunciare una censura dottrinale. In verità, l’intenzione di Francesco a Firenze restava sapientemente pastorale: pelagianesimo e gnosticismo, secondo lui, equivalgono a due patologici disagi pastorali, da cui occorre guarire quanto prima perché minano gravemente la salute del corpo ecclesiale.
“Il pelagianesimo ‒ ha spiegato ‒ ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito”. E da questo irrigidimento sortiscono sterili “conservatorismi e fondamentalismi”, oltre che un anacronistico tradizionalismo che ‒ in un contesto culturale ormai mutato e sempre cangiante ‒ non è più capace di veicolare significativamente il messaggio cristiano, tendendo semmai a musealizzarlo. Dall’altra parte, lo gnosticismo “porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello” e, in definitiva, della carne di Cristo Gesù. Si risolve in un astratto intellettualismo, al quale le pieghe della storia sembrano troppo strette e che prova tedio per le piaghe del mondo.
Se il pelagianesimo spinge la Chiesa a trincerarsi nella regola, lo gnosticismo la induce ad alienarsi nel concetto,
immaginando così di valorizzarne l’attitudine a trascendersi in direzione di Dio. Ma, al contempo, facendole dimenticare che la cifra più autentica della stessa trascendenza divina è il mistero dell’incarnazione. Vale a dire la disponibilità di Dio a trascendere la propria trascendenza, abbassandosi nella kenosis del Figlio umanato: per venire a farci compagnia, immergendosi nella nostra condizione, e per riscattarci dalla nostra debolezza, non disintegrandola d’incanto bensì assumendosela Egli stesso.
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