Betlemme è una terra impregnata di pane: a prestare retta al suo etimo, è la “casa del pane”. Del pane e della parola, quella per antonomasia. Qui, proprio nella città che pareva essere la più piccola tra tutte, piantò la sua voce la Parola che dimostrò d’essere la più possente per ambizione e paradosso: qui “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). In quell’attimo, che dettò l’incipit dello stupore massimo, la lontananza tra Cielo e terra s’accorciò di migliaia di miglia. La sua vicinanza parve, ai più, persino imbarazzante: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”. “Tanto” è misura di intensità, il tratto dell’esagerazione, indice di un sovrappeso d’amore:
quando ama, Dio non conosce misura.
Esagera, approssimando per eccesso: “Non per condannare il mondo, ma perchè il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Giace qui, ai bordi di un mistero incomprensibile, l’identità più bella di chi, ancor oggi, s’arrischia nella sequela: cristiano non perché ama Dio, ma perché avvertirà d’essere amato da Lui. Non perché l’ha veduto, ma perché avverte l’urto d’essere stato veduto da Lui: “E’ Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri” scriveva madre Teresa di Calcutta. Nicodemo, nel Vangelo di Giovanni, è un uomo-nottambulo: va da Gesù quand’è buio. Poi, senza nemmeno volerlo, s’accorge d’aver intravisto quant’è fascinosa la Luce. Quant’è bello rinascere.
Rinascere è verbo di ri-creazione: dice cucitura, rammendo, ritocco.
Anche perfezionamento. E’ termine ludico: “Suona la campanella della ricreazione!”. La cucitura e il divertimento, la creazione e la ri-creazione, strappi e rattoppi. Nella città di Betlemme la ricreazione è continua: “Il Bambino a Betlemme è fragile, non sa parlare. E’ debole e ha bisogno di essere aiutato e protetto” sono state le parole di Papa Francesco durante la messa celebrata a Betlemme, in piazza della Mangiatoia. E’ la storia di un Bambino che odora di pane e di parola. E’ la storia spettacolare di Effetà (www.sostienieffeta.org), l’istituto per la rieducazione fonetica di bambini con problemi di udito, voluto da Paolo VI nella sua visita in Terra Santa nel 1964. Le sue sentinelle, che vegliano notte-giorno, sono le suore della Congregazione di Santa Dorotea di Vicenza. Il Bambino-rotto qui non si getta, si ripara: talvolta lo si corregge che è una meraviglia. L’arma – pare ovvio in una terra d’altissima loquacità come quella di Betlemme – è quella della parola: nessuna scappatoia, nessuna pia compassione, traccia-nulla di piagnisteo. La parola scambiata – chi non sa parlare è perché sordo alla parola – è per loro Terra Promessa: quando ci arrivano, perché ci arrivano, accendono un riscatto: “Quando sono arrivata a Effetà ero sorda, non pronunciavo parola – dice Isra’a -. Quest’anno finirò la scuola e mi laureerò in Scienze dell’Educazione”. La vittoria è senza repliche, la promessa è un debito di restituzione: “Appena mi sarò laureata, vorrei poter aiutare la mia scuola di Effetà, come loro hanno aiutato me: sento di essere in debito con loro”. L’apparecchio che Isra’a porta alle orecchie è coperto dai suoi capelli nero-corvino. Non ce lo avesse detto lei, manco ce n’eravamo accorti: “Ciò che diciamo principio spesso è la fine, e finire è cominciare” (T.S. Eliot).
Alle suore, quasi un raddoppio di femminilità cucito loro addosso, l’ardire è materia ricevuta in dote con la sequela: farla circolare è mostrare che “chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte” (Gv 3,14-21).
A Betlemme il Vangelo è ancora oggi lavori-in-corso: facendoci pellegrini quaggiù abbiamo riscoperto che la speranza è un’azione-manovale (Le ragioni della speranza, sabato, ore 16,15, Rai1).
E’ annuncio di manovalanza: Effetà – tra muri, check-point, mitragliate – è certificazione di fattibilità. Una pagina di Vangelo.