C. aveva solo 25 anni e stava per iniziare il percorso di noviziato per entrare in convento. I militari le hanno sparato mentre protestava pacificamente davanti ad una chiesa di Kinshasa, insieme ad altre migliaia di persone, tra cui moltissimi cattolici: chiedono al presidente della Repubblica democratica del Congo Laurent-Désiré Kabila di non ricandidarsi per il terzo mandato, vietato dalla Costituzione. C. è una delle due vittime dell’ultima manifestazione del 25 febbraio, indetta dal Comitato laico di coordinamento, un gruppo di intellettuali vicino alla Chiesa cattolica, che dal 31 dicembre sta manifestando pacificamente, con rosari, bibbie e croci in mano. Reclamano il rispetto dell’accordo del 31 dicembre 2016, per portare il prima possibile il Paese alle elezioni, previste ora il 23 dicembre 2018 ma negli anni sempre rimandate. Da allora sono state tre le manifestazioni, tutte represse con la forza dal governo e con decine di vittime e centinaia di feriti e arresti in tutto il Paese. Anche le religiose non hanno timore di protestare, pur rischiando la vita, e partecipano a tutte le iniziative proposte dal Comitato laico di coordinamento.
“Non abbiamo paura”, dice al Sir da Kinshasa suor Marie Christine Dubele, delle Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso, una congregazione nata in Sardegna, a Tempio Pausania, con oltre 100 suore in diversi Paesi del mondo. Anche lei e le sue consorelle erano in piazza a manifestare e conoscevano una delle vittime. “E’ il governo ad aver paura di noi perché la Chiesa qui ha molta influenza, è riconosciuta e seguita dalla popolazione – dice -. Probabilmente non ci saranno altre marce per il momento”.
“Dovranno cercare altre soluzioni, ma come cattolici siamo compatti nel rivendicare il nostro diritto alla democrazia”.
A Kinshasa la tensione sale durante le manifestazioni. In questi giorni nella capitale la situazione è tranquilla, ma la tensione sale nei giorni delle manifestazioni, vietate dal governo. La polizia interviene con spari e gas lacrimogeni per disperderle e sono tanti gli episodi di arresti, profanazioni di chiese e brutalità da parte delle forza dell’ordine. Le Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso hanno due comunità a Kinshasa, di 7 e 4 suore, e operano in ambito sanitario. Da quest’anno prenderanno in gestione anche l’ospedale materno-infantile “Gild”, 40 posti letto nel quartiere di Mont’Gafula, una baraccopoli come tante, di 38.000 abitanti. “I poveri non hanno la possibilità di andare in ospedale – spiega suor Marie Christine – perché la sanità è tutta privata. Siccome è vietato fornire prestazioni sanitarie gratuite avremo prezzi molto bassi”.
“Un Paese ricchissimo ma poverissimo”. Da dicembre ad oggi sui loro telefonini girano immagini raccapriccianti sulle vittime della repressione. Visto che la comunità internazionale e la stampa estera non si interessano della crisi, tutte le informazioni passano in questo modo o via radio, il più delle volte in lingala, la lingua locale, anziché in francese. “La calma è apparente in realtà la situazione è molto tesa”, racconta di ritorno da una missione a Kinshasa Rossella Mercurio, presidente della Onlus “Fourth world”, con sede a Roma, che ha finanziato il progetto dell’ospedale dove lavoreranno le suore. “E’ un Paese difficile – spiega -: ricchissimo di risorse minerarie come il coltan e i diamanti ma al tempo stesso poverissimo”.
“I proventi non vengono distribuiti equamente, la popolazione non ne usufruisce e c’è moltissima corruzione”.
Le manifestazioni contro Kabila esprimono quindi una frustrazione crescente nel popolo congolese, stanco di essere sfruttato, impoverito, esposto a continue violenze e conflitti. Un recente report della rete Caritas elencava almeno 13,1 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti per sopravvivere e oltre 4 milioni di sfollati a causa degli scontri con i gruppi armati nel nord e sud Kivu, nell’Ituri, nel Grand Kasai, con uccisioni, incendi di case, saccheggi e persone in fuga.
I vescovi: “A chi giova la destabilizzazione del Paese”? “A chi giova la destabilizzazione del Paese?”: si chiedevano a febbraio i vescovi della R.D. Congo, denunciando “la repressione sanguinosa” delle manifestazioni, l’estendersi dell’insicurezza e la “campagna di discredito e diffamazione contro la Chiesa cattolica”. E’ del 13 marzo una loro nota, molto esplicita, in cui affermano: “Si stanno alimentando scontri etnici per costringere gli abitanti alla fuga e liberare spazi, in modo da sfruttare impunemente le ricchezze del territorio”. Insieme ad altri organismi della società civile non smettono di far sentire la loro voce coraggiosa per
“denunciare l’ingiustizia che impedisce al popolo congolese di consolidare la propria economia”.