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Siria: il bimbo nella valigia e i figli della guerra

Oliviero Forti

Da oltre 7 anni la Siria è teatro di una sanguinosa guerra fratricida che abbiamo imparato a conoscere attraverso le immagini dei media, quelle stesse immagini che credevamo di non dover più vedere, se non in quei vecchi documentari sulla seconda guerra mondiale che ogni tanto mandano in tv. Tutti immaginavamo e speravamo che l’ultimo grande conflitto della storia moderna sarebbe stato quello che, oltre mezzo secolo fa, ha seminato morte e devastazione e il cui ricordo è rimasto indelebile nella memoria collettiva. E invece no!

In un piccolo Paese mediorientale si sarebbero riproposte, 65 anni dopo, le stesse immagini, gli stessi volti, le stesse storie di uomini e donne piegate da un conflitto senza fine, in fuga da un Paese che non c’è più. Immagini che contribuiscono ad alimentare lo sgomento e la tristezza in chi assiste impotente al disfacimento di un popolo, di milioni di famiglie che dovranno convivere con il dolore di aver perso i propri cari in battaglia o sotto i bombardamenti o vittime innocenti di esecuzioni sommarie.

Il rischio di assuefazione davanti alle migliaia di immagini che vengono quotidianamente riproposte dai media sulla vicenda siriana, è sempre molto alto e al contempo, come ogni processo di assuefazione, nasconde il pericolo di non farci più reagire e quindi di accettare passivamente quanto sta accadendo a due ore di volo da casa nostra. E allora

va dato merito a coloro che nel fare comunicazione sono ancora capaci di suscitare emozioni, facendoci riflettere sull’assurdità di quanto sta accadendo in Siria.

L’ultimo caso, in ordine di tempo, è l’immagine del bimbo nella grande valigia di pelle portata dal padre, con mano ferma, durante la fuga dal martoriato quartiere di Ghouta, a Damasco. Incredibilmente, il volto di quel bimbo infonde grande tenerezza e una strana serenità, nonostante, nella sua breve vita, abbia conosciuto nient’altro che la guerra. Forse per lui quel viaggio dentro una valigia di pelle bordeaux non è poi così stravagante. Fa parte di quell’assurda realtà che ai suoi occhi è la normalità. D’altronde, come lui, sono migliaia i bambini nati negli ultimi 7 anni in Siria.

Sono i figli della guerra, i piccoli siriani che non sanno quale sia il significato della parola normalità, le cui giornate vengono scandite dal sibilo delle pallottole e dal rombo degli aerei che bombardano quel poco che è rimasto delle città e dei loro villaggi.

La scuola, i negozi, la passeggiata al parco sono esperienze che non hanno vissuto ma che ritrovano nelle tante storie raccontate dai loro genitori. Un modo per ricordare ai loro figli e a se stessi che una vita normale è possibile.
Nessuno sa dove è diretto l’uomo dalla valigia di pelle. Tutti sappiamo però che porta con sé la cosa più preziosa che gli è rimasta, la speranza. Quel bimbo è la speranza e il grande desiderio di pace per la Siria.

 

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