La colpa è di Facebook. Almeno secondo la campagna social #DeleteFacebook, secondo la Borsa che ha bruciato, in poche ore, decine di miliardi di dollari del gruppo di Menlo Park e secondo molti governi e istituzioni internazionali che adesso si affrettano a convocare Mark Zuckemberg sul banco degli imputati. Stiamo parlando del cosiddetto scandalo “Cambridge Analytica” che vede il social network più diffuso e più influente al mondo rischiare una catastrofe reputazionale ed economica senza precedenti.
Tanti altri dettagli chiarirebbero ancor meglio la vicenda. Ciò che conta è pero una riflessione sul nostro ruolo sociale online. È necessario, infatti, prendere coscienza che ogni nostra traccia, nell’epoca della connessione perenne, mai si cancellerà.
Ciò che scriviamo, condividiamo, ciò che ci piace, i nostri consumi, le nostre visualizzazioni, contribuiscono a (ri)definire status e posizioni del nostro agire.
In un certo senso delineano l’identikit della nostra persona, estroflettono la nostra personalità, ci rendono visibili. Vivere online significa aprire la porta della nostra intimità, spogliarci delle barriere temporali e spaziali tipiche della vita offline per catapultarci (spesso inconsapevolmente) in un agone pubblico senza confini, privo di controllo sociale e potenzialmente afferrabile, manipolabile e usabile da chicchessia.
Questo scenario non è privo di conseguenze. Anzitutto la paura di essere spiati, manovrati e di diventare, nostro malgrado, pedine in mano al Panopticon di turno. Poi l’opportunità vera o presunta che opinion leader possano indirizzare le nostre preferenze, da quelle più innocue come l’acquisto di un prodotto a quelle più incisive come una preferenza politica.
Qualunque sia il livello di sottrazione della nostra intimità, tocca rimboccarci le maniche e farci carico di un caos concreto (conseguenza delle dinamiche digitali) che rischia di deresponsabilizzarci e di cedere arrendevolmente ad altri la nostra capacita intenzionale di determinazione. Quella capacità che dovrebbe essere la qualità primaria del nostro vivere, con la quale possiamo affermare la nostra umanità al di là dei banner pubblicitari che spuntano improvvisamente sulle nostre pagine social.
Letto sotto quest’ottica il caso Cambridge Analytica perde di peso specifico riducendosi a una diatriba (più o meno legittima) tra poteri forti, lobby, istituzioni e multinazionali. Un conflitto che all’uomo comune (che ogni secondo lascia pezzi di sé in Rete) dovrebbe interessare esclusivamente come un ordinario fatto di cronaca internazionale. Ciò che è importante è invece è il contributo potenziale che episodi come questi possono dare alla costruzione di una cittadinanza digitale responsabile, attiva, costruttrice di bene e in grado, così, di evitare di arrendersi a qualunque stimolo gli venga proposto.
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