Lo ha sottolineato giovedì mons. Carlo Bresciani, vescovo della diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, nella Messa crismale
Vescovo Bresciani: “Si tratta di una celebrazione che sentiamo fortemente e a cui lodevolmente teniamo molto. È anche per noi una celebrazione particolarmente intima, perché ci vede radunati come intero presbiterio insieme al vescovo per rinnovare le promesse fatte il giorno della nostra ordinazione. Vogliamo seguire l’esortazione di san Paolo a Timoteo “ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani” (2Tim 2, 6). Vogliamo anche noi ravvivare questa mattina il grande dono che Dio ci ha fatto: quello di essere a servizio del suo corpo, che è la Chiesa, chiamati come gli apostoli intorno alla mensa del suo corpo e del suo sangue versato per noi. Carissimi, dobbiamo sempre ritornare a quel giorno in cui abbiamo detto il nostro sì, pieni di quell’entusiasmo che con il tempo non si è perso, anche se si è fatto più carico di esperienza e quindi meno superficiale. Chiediamoci questa mattina che cosa può significare per ciascuno di noi questa esortazione di Paolo onde recuperare quello Spirito “di forza, di amore e di saggezza” (v. 7) che ci è stato donato dall’imposizione delle mani e che esercitiamo nel ministero che ci è stato affidato. Abbiamo in noi il dono di Dio, ci ricorda san Paolo, ed è vero. Si tratta di un dono che ci permette di agire in persona Christi, come si usava dire per esprimere una grande verità che non cessa di meravigliarci anche a distanza di molti anni dalla nostra ordinazione: quando doniamo ai nostri fedeli il sacramento, è Dio che agisce attraverso di noi con tutta l’efficacia della sua grazia. Solo Dio può dare questo dono, non una qualche elezione umana. Senza questo speciale dono di Dio non c’è sacramento e, quindi, non c’è Chiesa.
A noi, carissimi presbiteri, è affidata la Parola e il sacramento: i doni più preziosi e più santi della Chiesa, perché in essi e attraverso essi è Dio stesso che agisce nei cuori umani e li apre alla verità e alla vita. Noi siamo collaboratori di Dio, affinché la gioia del Vangelo e la salvezza possa giungere fino ai confini del mondo attraversando spazi e tempi. Sappiamo bene che questo non è per i nostri meriti, poiché, in quanto a meriti, non siamo certamente più dei nostri fedeli, ma per la benevolenza di Dio che ci ha chiamati. A noi è affidata la guida di una porzione del popolo di Dio, della quale dobbiamo prenderci cura amorevole in tutte le sue componenti: l’amore per questa porzione del popolo di Dio, che è la nostra Chiesa diocesana, è per noi amare e curare Gesù stesso nelle sue membra, talora piagate dalle vicende della vita e ferite dalla trascuratezza nella quale sono cadute, inconsapevoli della loro dignità di figli di Dio. In quest’anno, in cui ci stiamo preparando al Sinodo sui giovani indetto da papa Francesco, la nostra attenzione è richiamata in modo particolare al ministero che ci è stato affidato nei loro confronti. Sappiamo bene tutti quanta fatica facciamo a capirli e a farci capire da loro; quanta fatica a far giunger a loro la Parola di Dio che salva. Ma essi sono nel nostro cuore; essi ci sono stati affidati da Dio. Gesù, affidandoci il ministero nella Chiesa, ci manda anche a loro. Ad essi vogliamo sinceramente bene e vorremmo, ascoltandoli con profonda attenzione, aiutarli a trovare il loro giusto spazio nella Chiesa, affinché giunga anche a loro la Parola di vita che salva. Sono profondamente convinto che non è vero che a loro basti il divertimento e la distrazione. Non sono affatto convinto che ad essi non interessi il loro futuro e non si pongano la questione della scelta di vita.
Chiediamo a Dio che ravvivi in noi quello Spirito “di forza, di amore e di saggezza” che ci ha donato con l’imposizione delle mani e mettiamoci in loro ascolto: sono convinto che hanno qualcosa da dire a noi e alla Chiesa, anche attraverso le loro critiche, talora ingenerose, e le loro richieste a volte cariche dell’utopia propria dei giovani. Sappiamo noi ascoltare il loro silenzioso grido di aiuto? A volte penso che il loro grido sia simile a quello del popolo ebreo schiavo in Egitto e in attesa di qualcuno che in nome di Dio indichi loro la strada della libertà. Carissimi sacerdoti e diaconi permanenti, non scoraggiamoci, ma chiediamo a Dio di saper ascoltare e discernere il loro grido silenzioso e soffocato da tanto rumore di assordati distrazioni che la società offre loro. Ma è un grido che giunge alle orecchie di Dio e che Egli rimanda a noi e, come ha fatto con Mosè, Egli ci manda a loro sorprendendoci magari nella quiete dei pascoli del deserto con pecore stanche e sfiduciate. Come Mosè, confidando in Dio, non temiamo di affrontare le novità di una missione non priva di difficoltà poste sia dai faraoni di turno, sia dagli stessi giovani, timorosi come gli schiavi ebrei per le reazioni dei faraoni. Anche per loro la strada per crescere verso l’età adulta della vita e della fede è come un esodo, un’uscita dall’Egitto per entrare nella terra promessa passando attraverso il mare e il deserto. Uscire da – passare per -entrare in sono i tre momenti del cammino dell’esodo. Sono i tre momenti attraverso i quali i giovani devono passare, ma sono anche i tre momenti di crescita attraverso cui anche noi dobbiamo passare per crescere nella nostra realtà di chiesa diocesana, corpo di Cristo, per rigenerare la vita in noi e nel mondo. In questa avventura si trova tutta la bellezza del generare, ma anche i pericoli e le tentazioni dell’attraversamento di un deserto ad un tempo meraviglioso e spaventoso per crescere come Chiesa che annuncia il Vangelo nel mondo di oggi. Carissimi, ardua, ma molto bella è la missione alla quale il dono di Dio che abbiamo accolto con l’imposizione della mani ci invia. Essa non riguarda solo i giovani, certamente, ma ad essi va il nostro pensiero quest’anno nel quale siamo invitati dal papa a rinnovare la nostra attenzione e il nostro accompagnamento nei loro confronti. Essi fanno parte di quella pecorella smarrita di cui parla Gesù nella parabola del Vangelo di Luca (cap. 15) per andare il cerca della quale vale la pena lasciare nel recinto le altre. Ma, forse, più che di una pecorella smarrita, dovremmo parlare di un gregge smarrito e di un ovile che rischia di custodire solo poche pecore stanche, confuse, ma possessive e talmente legate al passato da rifiutare ogni cammino nella fede e da preferire le cipolle d’Egitto alla terra promessa. Ci troviamo per molti aspetti in una situazione analoga a quella degli apostoli che Gesù invia non a un mondo già evangelizzato, a una Chiesa già impiantata, ma a un modo di fatto molto pagano che conosce Dio, perché ne ha sentito parlare forse da piccolo, ma che non l’ha capito e oggi pensa di potere tranquillamente farne a meno. Il dono di Dio ci rassicura, perché sappiamo che non contiamo sui nostri mezzi e sulle nostre forze, che pure dobbiamo usare con sapienza e amore: “Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza” (2Tim 2, 7). Forti di questa fede e della certezza che il dono di Dio non verrà mai meno – il suo parlare è sempre un sì definitivo e creativo -, rinnoviamo le promesse della nostra ordinazione, immergendole nel mistero pasquale di nostro Signore Gesù, il Cristo, dal quale soltanto proviene ogni rinnovamento di vita e nel quale si rigenera sempre di nuovo la Chiesa e noi in essa. Con il cuore colmo di gratitudine nei vostri confronti per il generoso ministero che esercitate a favore della nostra amata Chiesa truentina, porzione eletta del copro di Cristo, mi unisco a voi nella lode a Dio e nell’implorazione, perché Egli abbia a rinnovare in me e in voi quel prezioso suo dono che l’imposizione delle mani ci ha conferito. Maria, patrona della nostra chiesa madre, madre piena d’amore, ci accompagni, lei madre del buon consiglio, come ha accompagnato quella Chiesa nascente scaturita dal cuore trafitto di suo Figlio”.