“Non basta avere un lavoro, questo non dev’essere contro la vita, contro la dignità, contro lo sviluppo pieno delle persone”. Ne è convinto mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, la custodia del creato della Cei, commentando per il Sir il messaggio che la Commissione stessa ha diffuso per il Primo maggio.
Nel messaggio dei vescovi torna più volte l’indicazione del “lavoro buono”. Ma che caratteristiche ha oggi?
Il buon lavoro ha il nome di lavoro degno, affermazione che è stata il tema fondamentale della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, a Cagliari. Cioè il lavoro che non ha come obiettivo principale elevare al massimo il profitto e nemmeno il puro e semplice risultato economico. Il buon lavoro è quello che rende possibile la realizzazione della persona, ne rispetta la dignità ed è svolto in forma compatibile con l’ambiente e le condizioni in cui le persone vivono.
Il buon lavoro è il frutto di una conversione culturale.
Da dove partire?
Nella situazione attraversata dall’Italia – in cui, particolarmente al Sud, assistiamo al persistere di un 50% di giovani tra i 15 e i 29 anni disoccupati –
l’esigenza del lavoro, di un buon lavoro, è quella fondamentale. Il problema capitale della società italiana è la qualità e la dignità del lavoro. L’urgenza che noi abbiamo è soprattutto quella di un lavoro carico di significato, perché orientato non solo all’aspetto economico ma anche a quello personale e sociale.
Che contributo può offrire la Chiesa nella sfida su quantità, qualità e dignità del lavoro che caratterizza la nostra società?
Innanzitutto quello di mettere al centro la dignità della persona, per cui
si tratta di creare un lavoro che rispetti e valorizzi la dignità della persona. E questo non è scontato.
Dalla centralità della dignità della persona deriva il cercare tutte le vie perché ci sia un’occupazione adeguata, particolarmente dei giovani. E dei cammini in cui quest’occupazione possa realizzarsi. A fianco di ciò, oltre alla denuncia del lavoro non degno, non buono, c’è l’indicazione delle “buone pratiche”, cioè di percorsi in cui è possibile realizzare il lavoro degno.
Un ambito sul quale la Chiesa ha investito e continua ad investire…
Il Progetto Policoro, quello dei “Cercatori di LavOro” che ora chiamiamo “Cantieri di LavOro”, la valorizzazione degli oratori non solo come spazi per il tempo libero ma come luoghi in cui la persona è formata a scoprire il senso del lavoro e orientata a trovarlo…
Si tratta di far emergere e conoscere sempre più quelle esperienze che sono costruttive non solo di una risposta economica ma di un contesto sociale differente. Il tutto senza far calare l’attenzione rispetto alle situazioni più vulnerabili: il lavoro per i giovani, quello delle donne, dei disabili. E quello inclusivo per i migranti.
Come già successo a Cagliari, anche nel messaggio sono indicate delle urgenze presenti nel Paese che sottoponete alle Istituzioni…
Certo. Innanzitutto c’è quella di togliere gli ostacoli per chi il lavoro lo crea. Significa, ad esempio, facilitazioni da parte delle amministrazioni pubbliche per chi vuol mettere su un’impresa virtuosa o nell’assunzione dei giovani. Poi ribadiamo l’importanza delle istituzioni formative (scuola, università istituti professionali) chiedendo che la formazione sia orientata – non solo per gli istituti tecnici o professionali ma per tutti – al compito che si svolge nella società, quindi al lavoro.
Si tratta di provocare il desiderio nei giovani, la loro creatività perché il lavoro non venga percepito come il luogo in cui metti le energie in modo passivo e meccanico o grazie al quale hai trovato come guadagnare lo stipendio mensile. È importante che nella formazione ci sia la prospettiva che il lavoro che andrò a fare non è solo per l’economia ma per la realizzazione della persona.
È più che mai necessario attivare il desiderio: ma ciò può succedere se il giovane è messo di fronte a cammini che indicano che quel desiderio si può realizzare.
C’è poi un terzo passaggio…
Quello della protezione dei soggetti più deboli.
Avere un lavoro non è sufficiente per uscire dalla condizione di povertà.
Nella situazione in cui siamo, oggi avere un lavoro non ti dà alcuna garanzia che in futuro possa essere così. Per questo è necessario che insieme al lavoro ci sia una competenza lavorativa e uno sviluppo di atteggiamenti relazionali diversi. Questo significa che il lavoro non può essere inserito in un contesto meccanico ma in una rete di rapporti, in una creatività.
Il Primo maggio non si può non pensare all’alto numero di morti sul lavoro che si sono registrati da inizio anno…
Nonostante sia aumentata l’attenzione alla sicurezza sul lavoro continuiamo ad avere esempi tragici in tutta Italia. Si tratta di uno degli aspetti più dolorosi.
La sicurezza è l’elemento da garantire nel momento in cui si programma un lavoro. Sulla sicurezza del lavoro dobbiamo essere sempre molto vigilanti ed esigere che quando si esercita un lavoro, questo abbia come prospettiva la dignità e la sicurezza delle persone.
Dal suo osservatorio, qual è lo stato del lavoro in Italia?
Stiamo conducendo una battaglia perché venga superata innanzitutto la disoccupazione. Dobbiamo fare di tutto perché siano evitati lavori non buoni, non degni, in cui si trova la morte. E perché ci sia un’attenzione più critica sui problemi come il caporalato, le ecomafie, le agromafie… Ma ci sono anche aspetti positivi. Vedo aumentato il momento innovativo, quello creativo. Accanto al mettere in atto l’esercizio meccanico per la realizzazione dell’opera sono entrati nella questione lavorativa l’ingegno, la fantasia. Se questo diventa non solo d’élite ma l’itinerario formativo dei nostri giovani, ci sarà sempre più innovazione, come una possibilità di crescita quando guidata dalla coscienza e da una sensibilità che vede nella persona un valore infinito e una capacità di creare attorno a sé una novità.