Viviamo nel passaggio dalla “società dell’informazione” alla “società informazionale”, ovvero da una società in cui l’informazione è “importante” a una società “fatta” di informazioni”. Ed è con questo contesto comunicativo che, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti. Ne sono convinti don Ivan Maffeis, sottosegretario Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, e Pier Cesare Rivoltella, professore ordinario di Didattica e Tecnologie dell’istruzione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, curatori del volume “Fake news e giornalismo di pace” (Morcelliana) che raccoglie una serie di commenti al Messaggio di Papa Francesco per la 52ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. “Il fatto che tutti possano esprimersi non comporta automaticamente il rispetto di chi la pensa diversamente, ma l’assolutizzazione del mio punto di vista. Chi dissente non è qualcuno che vede le cose diversamente, ma un nemico che in quanto tale va attaccato”, scrivono nell’introduzione al test: “Di qui la violenza nei social, nel dibattito politico, nel sistema dei media, nella società. Come si capisce – osservano -, non è il risultato dell’assenza di comunicazione o del trionfo della verità, ma esattamente il contrario: la violenza è spesso figlia della comunicazione polverizzata e dell’impossibilità di trovare in essa una verità”.
Per don Ivan Maffeis, siamo “in presenza di uno spezzettamento di quell’immaginario collettivo omogeneo che contribuiva alla composizione di un’agenda sociale condivisa”. “A caratterizzare quella che viene ormai definita ‘l’era biomediatica’,
più che le notizie è la condivisione in tempo reale delle biografie individuali,
lo storytelling di se stessi: l’io – quello che io faccio, quello io che penso, il mio stato d’animo – diventa il principale contenuto veicolato, alla ricerca di approvazione, visibilità e rilevanza”. D’altra parte Nataša Govekar, direttore della Direzione teologico-pastorale della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, precisa che il messaggio del Papa sulle fake news “ci fa scoprire come un tema apparentemente mediatico, digitale o culturale, sia in realtà profondamente antropologico. Scrutando le motivazioni che muovono i protagonisti attivi e passivi delle menzogne, scopriamo come proprio da questo nostro contesto di atomizzazione e decostruzione di ogni valore si stia alzando un grido, una supplica per riscoprire la verità nella sua dimensione più profonda”.
“In un mondo di simulazione generalizzata, in cui a caratterizzare gli atti di comunicazione non è il tentativo di fare vedere possibilità ma influenzare l’agire di altri per scopi di parte, il confine tra notizie vere e fake news diviene labile, poiché sia le une sia le altre vengono fornite con lo scopo di manipolare gli altri per i propri scopi”. Vincenzo Costa, professore ordinario di filosofia teoretica presso l’Università del Molise, spiega che “in questo senso, le stesse notizie vere, nella misura in cui vengono fornite per ottenere vantaggi particolari e non per generare una discussione in vista di una risoluzione di problemi guidati dall’idea di bene comune, non si distinguono nell’essenziale dalle fake news“.
Dal canto suo Paolo Peverini, ricercatore all’Università Luiss dove insegna marketing communication and new media, mette in guardia da “un gesto in apparenza molto semplice, talvolta quasi automatico, come condividere un’informazione con la propria rete di follower, contribuendo così all’amplificazione di una notizia (si pensi all’estrema facilità di condividere un contenuto nei social network),
occorre assumersi la responsabilità dell’atto comunicativo, mettere in gioco il proprio discernimento”.
Uno dei criteri guida intorno a cui pensare la lotta alla disinformazione, dunque, è “inevitabilmente l’autorevolezza delle fonti”.
Un invito a “ricostruire sulle macerie culturali e ideologiche degli ultimi decenni un contesto di fiducia nelle istituzioni giornalistiche e politiche che obblighi tutti a nuovi vincoli di serietà e di impegno”. È quello espresso da Ruggero Eugeni, professore ordinario di semiotica dei media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che promuove
“la difesa di un nuovo ruolo del giornalismo professionistico, ma anche l’opportunità di implementare i vari sistemi (più o meno ‘shared’ tra gli utenti e più o meno automatizzati) di fact checking e di penalizzazione delle fake news“.
Il fisofo Arnoldo Mosca Mondadori ricorda che “accanto al tempo della maldicenza, che si moltiplica e striscia per coinvolgere sempre più persone, vi è il lento tempo di Dio, che tesse i suoi reticolati d’amore per formare in modo misterioso il corpo della Vita, quello che rimarrà per sempre. È come se fossimo in una sinfonia su due livelli, due movimenti che si intrecciano e si sfiorano, e in mezzo a essi vi fosse la possibilità del coraggio della scelta, la scelta di accettare di entrare ‘nel branco’, oppure di fermarsi con lui che ‘taceva’, e contemplarlo”.
In conclusione, Pier Cesare Rivoltella si sofferma sulla “importanza di educare all’informazione in una società come quella attuale in cui l’informazione non è solo un elemento importante del paesaggio culturale, ma un ingrediente di cui questa stessa società è fatta”. Almeno due le direzioni operative: “La prima si rivolge ai professionisti dell’informazione, ai giornalisti, ai blogger, ai webmaster, a tutti coloro che per professione producono e diffondono informazioni; la seconda si rivolge a tutti gli altri che, per il fatto stesso di essere cittadini di una società informazionale, quotidianamente consumano e a loro volta producono informazioni”.
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