Maddalena Maltese
“Verifica” è l’espressione che Andrea Bartoli, preside della Scuola di diplomazia e di Relazioni internazionali della Seton Hall University in New Jersey, diplomatico ed esperto in risoluzione dei conflitti, ripete più volte per analizzare l’uscita degli Stati Uniti dal trattato sul nucleare iraniano, ma anche per comprendere la svolta nelle relazioni con la Corea del Nord. “Verifica” diventa garanzia di un percorso di dialogo, che potrebbe prevenire tanti conflitti eppure “non vogliamo fare il bene che sappiamo necessario e facciamo costantemente i conti con il mistero del male”.
Come commenta la decisione del Presidente Trump di mettere fine a un accordo voluto in fondo dalla stessa amministrazione americana?
In questo processo occorre ricordarsi che Trump è un businessman e come tale cerca sempre l’accordo, l’affare. Magari lo cerca attraverso forme di negoziato pesante e duro, che non appartengono all’ordinario linguaggio dei diplomatici ed infatti è molto più pronto ad usare iperboli, insulti, minacce pubbliche al fine di mettere paura e giungere comunque ad un risultato, come è stato ad esempio in Corea del Nord. Bisogna assolutamente distinguere stile e sostanza.
Cosa comporterà questa decisione, oltre le già annunciate sanzioni?
Voglio precisare che nella ricerca di qualunque accordo sulle armi nucleari è fondamentale la verifica. In questo contesto, il problema non sarà soltanto cosa si dice ma come verificare che ciò che si decide venga messo in atto. E sono questi meccanismi che stanno creando difficoltà agli Usa, perché
gli addetti alla verifica dell’accordo confermano che l’Iran lo sta seguendo su tanti fronti e non c’è motivo di pensare che abbia rotto gli accordi con la comunità internazionale, ma non ci sono segnali che abbia interrotto qualsiasi investimento sul nucleare.
Eppure l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), un organismo indipendente, continua a sostenere che l’Iran ha rispettato l’accordo. Questi controlli non sono ritenuti sufficienti?
La verifica non è una questione di indipendenza, anzi possiamo dire che più le parti sono coinvolte nella verifica e più ci sono stutture robuste di indipendenza, più ci sono conflitti di interesse perché accade magari che i controllori sono pagati dalla compagnia controllata. Tutte le parti coinvolte dall’accordo hanno un comune interesse alla verifica perché considerano il trattato decisivo, ma c’è un atteggiamento di fondo ostile che si traduce non tanto nel provare delle violazioni ma nel riaffermare che le basi dell’accordo erano sbagliate, non credibili e non opportune.
Quale ruolo può giocare l’Europa?
Le prossime mosse degli europei sono tutte da verificare ma c’è, ancora, un margine minimo di svolta che potrebbe tradursi, paradossalmente, in un Iran che crede ancora alla forza dell’accordo anche attraverso quello che la comunità internazionale, ad eccezione degli Stati Uniti, potrebbe garantirgli. Si aprirebbe in tal modo uno scenario di isolamento per Usa e Israele, mentre
si allargherebbero le distanze tra gli Usa e l’Europa
con forme che non si erano mai viste, anche se già oggi abbiamo prova delle nuove dinamiche e dei nuovi equilibri che si stanno realizzando in chiave europea.
A sorpresa invece è maturato l’accordo di pace con la Corea del Nord…
La scelta americana di chiudere il capitolo della guerra permette di aprire un altro capitolo inesplorato che è appunto quello della pace. E qui il problema non è tanto parlarsi o incontrarsi ma la capacità delle tante parti in gioco di risolvere questa guerra perchè quando pensiamo alla Coree parliamo non solo di americani, ma di cinesi, russi e altri perché la guerra di Corea fu una guerra di tanti Paesi.
Negli Usa in tanti dubitano che Kim Jong-un abbia davvero intenzione di smantellare le armi nucleari e parlano di un’operazione diplomatica di copertura, dove rimane, pur in maniera ridotta, la struttura portante di una acquisita potenza nucleare come quella nordcoreana.
Il futuro ci riserverà una pace contraddittoria, dove da una parte la diplomazia chiude la guerra con gli Usa e dall’altra si impegna in un capitolo di trattative che potrebbe non finire perchè vanno verificati gli obiettivi che la Corea del Nord può e vuole avere. La Corea del Sud sta guidando le operazioni di pace perché ha investito nella politicaa del dialogo, spinta sia dai desideri della popolazione che dalle ragioni personali del premier. Ci si chiede quale pace emergerà in un contesto con un Sud sviluppato, democratico, aperto sul mondo anche attraverso internet e un Nord militarizzato e isolato. È opportuno, però, dare spazio e dare speranza perchè la Corea possa diventare luogo di incontro di mondi molto diversi, in cui potrà magari emergere una nuova e inattesa sintesi.
La scelta di Mike Pompeo come nuovo segretario di Stato potrebbe favorire questa diplomazia “rude” e talvolta efficace?
Per certi versi è una scelta felice perché aiuta Trump a dire quello che pensa. Il presidente Usa è un grande pragmatico e vuole persone altrettanto pragmatiche al suo fianco. Certo, ha uno stile personalissimo che eisge lealtà in maniera intensa e Pompeo è molto più capace di leggere Trump e di esprimerlo, rispetto a Tillerson. A chi gli contesta la presenza nella Cia, il suo tempo nei servizi segreti è stato breve e non ha influito molto, al contrario di Bush padre che nella Cia è nato e cresciuto ed è stato più a lungo, arrivando a portare la Cia alla presidenza. Trump non capisce la macchina amministrativa e insieme a Pompeo rappresentano un duo ai margini della burocrazia: è tutto da vedere quanto riusciranno ad esprimerla e governarla e soprattutto, quanto questa macchina si lascerà governare da loro.
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