Giovanni M. Capetta
Cosa significa che la carità è benevola? È una di quelle espressioni, in cui il linguaggio è davvero rilevante. Il Papa (AL 93-94) con poche pennellate ci aiuta a sintonizzarci sul reale significato che Paolo, scrivendo, voleva trasmettere con questo aggettivo. La carità, l’amore fra gli sposi “fa il bene”, vuole totalmente il bene dell’altra persona, a conferma che la pazienza – che precede questa espressione in Prima Corinzi 13 – è virtù attiva che anticipa e previene l’altro. Capiamo allora che non siamo di fronte ad un vago filantropismo, tantomeno alla tolleranza o al rispetto, che appartengono agli elementi essenziali del con-vivere civile. No, la benevolenza indica uno slancio di gratuità che tocca vette altissime, tanto che può considerarsi plausibile un umano tendere verso, un continuo approssimarsi a questo traguardo difficile e, però, possibile, proprio come la santità. Vi sarà capitato di interrogarvi di fronte al display del vostro cellulare, in uno slancio di passione, se scrivere: “Ti amo” o “Ti voglio bene”. Ecco la benevolenza mette in gioco proprio questo scarto che, almeno nella lingua italiana, mantiene il suo grado di ambiguità. Quale delle due espressioni è più forte, più esclusiva, più coniugale? Tutti direte “Ti amo”, locuzione che non si addice ad uno scambio fra amici… eppure nel “ti amo” degli sposi vive quel “voglio il tuo bene” dell’altra espressione e nel “ti voglio bene” si può alludere a quell’amore di amicizia che può darsi come oblativo e intensissimo senza avere a che fare col matrimonio. Non mi addentro su questo crinale linguistico e teologico che prende corpo a partire dal fatto che Gesù stesso chiama amici i suoi discepoli, ciò che però resta evidente è che l’amore a cui gli sposi sono chiamati contempla una dimensione di infinito nella finitezza dei giorni apparentemente tutti uguali. Il Papa invita a misurare la fecondità della vita di coppia proprio a partire dalla benevolenza che “permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire” (AL 94), Diciamo la verità, ognuna di queste espressioni è un giudizio (benevolo?) sui nostri comportamenti e ancor più sui nostri atteggiamenti. Quando non calcoliamo un pur minimo tornaconto? Quando non misuriamo magari solo nel nostro cuore se abbiamo fatto sforzi che ci paiono maggiori della nostra dolce metà? Quante discussioni nascono da questo sventolarsi reciprocamente davanti al viso il pallottoliere delle fatiche, delle responsabilità e dei doveri reciproci… Persino sul banco di chi debba buttare la pattumiera si può consumare una discussione tutt’altro che benevola! Eppure, contemporaneamente come delle gemme che affiorano dal materiale inerte della nostra debolezza, riconosciamo che fare il bene, dà senso al proprio e all’altrui andare. Il cuore lo sa: ogni gesto davvero gratuito rende felice chi lo fa prima ancora di chi lo riceve.