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Papa Francesco alla diocesi di Roma: “Un nuovo esodo” per “ascoltare il grido del popolo”

M.Michela Nicolais

“Ascoltare senza timore la nostra sede di Dio e il grido che sale dalla nostra gente di Roma”, per “un nuovo esodo, una nuova partenza, che rinnovi la nostra identità di popolo di Dio, senza rimpianti per ciò che dovremo lasciare”. Nell’ormai tradizionale incontro con la sua diocesi, Papa Francesco ha proposto un cammino di guarigione da alcune delle “malattie spirituali” elencate nell’Evangelii gaudium, oggetto di riflessione nelle parrocchie e nelle prefetture a partire dalla scorsa Quaresima. In una Roma dove “si impara la tuttologia”, ha detto rispondendo a braccio a quattro domande, e in cui domina “una generale e sana stanchezza delle parrocchie sia di girare a vuoto sia di aver perso la strada da percorrere”, l’unico antidoto consiste nell’”ascoltare il grido del popolo”, come ha fatto Mosé: il “santo popolo di Dio”, composto in gran parte di “persone rimaste anonime” a cui la vita della Chiesa deve molto. Come Pua e Sifra, le due levatrici che si sono opposte al Faraone impedendo lo sterminio di Israele. “Bisogna guardare a questo popolo e non a noi stessi”, per attuare quella “rivoluzione della tenerezza” a cui si arriva attraverso un cammino graduale all’insegna della conversione pastorale. “Il cammino può essere lungo”, ma vale la pena di percorrerlo senza paura di “lasciarci mangiare dalla realtà”.

Ad ascoltare il Papa, sia all’interno della basilica che nel cortile esterno, grazie ai maxischermi, circa duemila persone, in rappresentanza di tute le componenti della comunità ecclesiale, a cominciare dal vicario, mons. Angelo De Donatis, che lo ha accolto al suo ingresso, puntuale alle 19 come da programma. Prima di pronunciare il suo discorso, Francesco ha risposto a braccio a quattro domande, toccando tra gli altri un tema a lui caro: quello dei giovani, troppo spesso vittime, oltre che della droga, anche dell’alienazione culturale.

“Le proposte che fa la società ai giovani sono tutte alienanti”,

ha tuonato il Papa, che si è detto preoccupato anche perché i giovani vivono troppo immersi nel mondo virtuale: non salutano più le persone, lui compreso, con la mano, ma con le foto e i selfie. Bisogna farli “atterrare”, insegnando loro a toccare la concretezza della vita. Giovani “sradicati”: hanno bisogno di ascoltare i loro nonni, più che i loro genitori, che le radici le hanno un po’ meno salde.

Da un “non popolo” ad un popolo che sceglie il paradigma e il linguaggio dell’Esodo, per “un cammino di guarigione” accanto alla gente.

È questo l’itinerario suggerito dal Papa alla sua diocesi, come nuova tappa di un cammino ecclesiale “che a Roma non inizia certo adesso ma piuttosto dura da duemila anni”. Oggi è urgente chiedersi “quali siano le schiavitù che hanno finito col renderci sterili”, e soprattutto individuare “chi sia oggi il faraone”.

“Forse ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché abbiamo trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone”, il mea culpa del Papa: “Ci siamo accontentati di quello che avevamo: noi stessi e le nostre pentole”. Noi stessi, cioè “l’ipertropia dell’individuo”, e le nostre pentole, cioè “i nostri gruppi, le nostre piccole appartenenze autoreferenziali”. In una parola: “Ci siamo ripiegati su preoccupazioni di ordinaria amministrazione, di sopravvivenza”.

Il “grido” della gente, è il punto di partenza per non rimanere preda dell’impressione “che la nostra vita sia inutile e come espropriata dalla frenesia delle cose da fare e da un tempo che continuamente ci sfugge tra le mani; espropriata dai rapporti solo utilitaristi e poco gratuiti, dalla paura del futuro; espropriata anche da una fede concepita soltanto come cose da fare”.

La gente: quella che “magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita: che ha già fatto diventare significato della sua esistenza il Signore, e proprio dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana”.

“Il filo della storia sarà portato avanti da gente che non conosciamo”,

ha aggiunto il Papa a braccio auspicando che le nostre comunità “diventino capaci di generare un popolo, di offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta: parte non anonima di un tutto”.

La parte finale del discorso di Francesco è dedicata alla “rivoluzione della tenerezza”, l’unica capace di contrastare fenomeni come “l’individualismo, l’isolamento, la paura di esistere, la frantumazione e il pericolo sociale”, tipici di tutte le metropoli e presenti anche a Roma. “Non dobbiamo inventarci altro”. Basta diventare capaci di guardare al popolo e non a noi stessi, di riconciliarsi e di mettere nello zaino la voglia di camminare insieme verso “nuove condizioni di vita e di azione pastorale, più rispondenti alla missione e ai bisogni dei romani di questo nostro tempo”.

Senza paura di “lasciarci mangiare” dalla realtà, anche se “alcune iniziative tradizionali forse dovranno riformarsi o forse addirittura cessare”.

Le difficoltà e le malattie delle nostre comunità possono essere lette anche così: “Come realtà che forse non sono più buone da mangiare, non possono più essere offerte per la fame di qualcuno”. Ma questo “non significa affatto che non possiamo produrre più niente: dobbiamo innestare virgulti nuovi; innesti che daranno frutti nuovi”. “Coraggio e avanti! Il tempo è nostro”, il congedo a braccio del Papa.

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