Patrizia Caiffa
Nelle regioni anglofone del Camerun (Nord-Ovest e Sud-Ovest) sono in corso “violenze disumane, cieche, mostruose e una radicalizzazione delle posizioni che ci inquieta”: è il grido di allarme lanciato il 16 ottobre dalla Conferenza episcopale del Camerun, preoccupata per la “crisi socio-politica” nelle due regioni che parlano la lingua inglese, ossia il 20% della popolazione. Da ottobre 2016 sono iniziate, infatti, nelle regioni anglofone, violente proteste contro la discriminazione sociale e l’imposizione dell’inglese, tanto che la regione Sud si è dichiarata indipendente dal governo centrale del presidente Paul Biya il 1° ottobre 2017, dandosi il nome di “Ambazonia”, con una bandiera, un inno nazionale e un capo di Stato, Sisiku Ayuk Tabee, arrestato qualche mese fa in Nigeria. Il governo ha decretato il coprifuoco e sono iniziati gli scontri con gli agenti delle forze di sicurezza. La crisi si è inasprita, le forze camerunesi sono addirittura entrate in Nigeria alla ricerca di esponenti secessionisti tra gli sfollati. Il Dipartimento di Stato americano ha condannato la crescente violenza, l’Unione europea ha chiesto al governo camerunese di usare solo “forza proporzionata” per sedare la rivolta ma l’esercito camerunese nega di aver fatto ricorso ad “atrocità”. Ad oggi si contano almeno 150 vittime – tra cui 64 civili -, 160.000 sfollati interni e circa 26.000 fuggiti in Nigeria. “Cessiamo ogni forma di violenza e smettiamo di ucciderci – affermano i vescovi nella lettera, firmata dal presidente mons. Samuel Kleda, arcivescovo di Douala -: siamo tutti fratelli e sorelle, riprendiamo il cammino del dialogo, della riconciliazione, della giustizia e della pace”. I vescovi del Camerun chiedono “una mediazione per uscire dalla crisi e risparmiare il nostro Paese da una guerra civile inutile e senza fondamento”. Ai giornalisti non è permesso di entrare nell’area ma sono tanti i testimoni oculari costretti a fuggire dalle proprie case, che parlano di “arresti arbitrari e uccisioni, torture sui sospetti separatisti, violenza contro bambini e stupri”. Caritas Camerun, unica agenzia umanitaria presente in queste regioni, riferisce episodi di violenza cieca. Distribuisce acqua, cibo, forniture sanitarie e alloggio ma mancano risorse, perciò chiedono fondi urgenti per aiutare 5.000 rifugiati in Nigeria nei prossimi due mesi. Da Yaoundé parla padre Kisito Balla Onana, direttore di Caritas Camerun.
Qual è la situazione nelle regioni anglofone?
Va di male in peggio. I vescovi si sono riuniti per denunciare una situazione allarmante.
Oramai è una guerra.
Ci sono milizie, gruppi armati che hanno preso possesso di molti posti, interviene l’esercito, che arresta i giovani. Si parla di oltre 160.000 persone fuggite dalle loro case, tanti villaggi dati alle fiamme.
Ci sono molti morti da entrambe le parti, anche se non si sanno le cifre esatte delle vittime tra i militari. Ci sono turbolenze ovunque.
Molte scuole sono state chiuse a causa della situazione di caos. In una città i militari hanno portato via un prete, che poi è stato liberato a condizione che chiudesse il collegio. Molti si sono rifugiati nella boscaglia, nelle parrocchie, presso altre famiglie. Se viene ucciso un militare a volte intervengono in gruppo e bruciano le case.
Sono stato due settimane fa per capire quali siano i bisogni. Abbiamo incontrato il vescovo locale e ci ha confermato che la situazione è molto allarmante.
Cosa c’è all’origine di tutta questa violenza?
Sono regioni con molte risorse naturali ma trascurate. Noi abbiamo due Camerun, uno francofono e l’altro anglofono. Chi lavora con il governo ha sempre riferito al capo dello Stato che non esiste un problema anglofono. Nel tempo le posizioni si sono radicalizzate, nelle regioni anglofone ci sono state rivendicazioni da parte di avvocati, insegnanti, attivisti. Poi a ottobre 2016 si è svolta una marcia del partito al potere con molti militanti. Il governo centrale ha inviato i militari e l’opposizione si è armata, questi gruppi hanno cominciato a sparare.
Il governo non ha intenzione di negoziare con i movimenti indipendentisti?
I vescovi hanno chiesto un negoziato, ma personalmente non penso che il governo voglia davvero negoziare e interessarsi ai veri problemi delle regioni anglofone, che sono annosi.
La Chiesa potrebbe svolgere un ruolo di mediazione?
Ho fatto questa domanda a monsignor Kleda, presidente della Conferenza episcopale, ma non si è pronunciato apertamente. Però la Chiesa continuerà ad interessarsi della situazione: la prossima settimana si riunirà un gruppo apposito di lavoro per scrivere
una lettera episcopale che fornirà i dettagli dei morti, dei feriti, delle case bruciate.
Se il governo accetterà di fare una mediazione mi sembra che sia importante, per la Chiesa, cercare di armonizzare la posizione dell’opposizione, magari parlando con i vescovi delle regioni anglofone.
Siete gli unici a portare aiuti umanitari in quelle zone?
Ci sono anche le Nazioni Unite ma è complicato perché non possono andare ovunque.
Solo la Caritas, essendo più radicata nel territorio, può agire nei villaggi più remoti,
aiutando in modo clandestino. Ci sono molte limitazioni ma con le Caritas locali cerchiamo di fare animazione con i bambini, mandarli a scuola, aiutare i malati… I bisogni sono enormi.
Qual è allora il vostro appello?
Condividiamo l’appello dei vescovi: bisogna aiutare le vittime che soffrono molto.
Hanno bisogno di cibo, cure mediche, accompagnamento.
Ci sono state tante violenze sui bambini, sui genitori. La situazione è veramente grave.