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Striscia di Gaza: suor Tighe (Caritas Jerusalem), “una bomba pronta ad esplodere”

Daniele Rocchi

“Una bomba pronta ad esplodere”:

Suor Bridget Tighe (foto Caritas Jerusalem)

è questa l’immagine che suor Bridget Tighe, da gennaio direttrice generale di Caritas Jerusalem, usa per descrivere al Sir la situazione a Gaza dove ha vissuto e operato per ben cinque anni. Dopo le forti proteste delle settimane scorse, culminate nei violenti scontri del 14 maggio al confine con Israele, che hanno provocato decine di morti e migliaia di feriti, questi nella Striscia sono i giorni del lutto.

“Le persone – racconta al Sir la religiosa – sono sotto shock per ciò che è accaduto. Sono i giorni del dolore, dello scambio di condoglianze, della visita ai familiari delle vittime. È vero, i palestinesi hanno tirato sassi, molotov, ma la risposta di uno degli eserciti più forti, addestrati ed equipaggiati al mondo è stata totalmente sproporzionata”.

E sulla effettiva violazione del diritto internazionale da parte di Israele il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Hrc), alcuni giorni fa ha autorizzato a larga maggioranza una commissione d’inchiesta. Risoluzione respinta con fermezza da Israele e, tra i 47 Paesi membri del Consiglio, da Australia e Usa. “La situazione adesso sembra essere più tranquilla” e, secondo quanto riferito dallo staff di Caritas Jerusalem presente nella Striscia, “non si registrano particolari manifestazioni o tensioni al confine”. Ma non si può certo parlare di quiete dopo la tempesta. Anzi…

Vivere a Gaza oggi. “Delle migliaia di feriti negli scontri – dichiara suor Tighe – moltissimi sono giovani, tanti hanno perso gli arti, condannati a una disabilità a vita. Il sistema sanitario di Gaza è privo di mezzi anche a causa del blocco imposto 11 anni fa da Israele. Le medicine sono insufficienti, mancano bendaggi, anestetici. La situazione negli ospedali pubblici è al collasso e moltissimi pazienti vengono rispediti a casa prima del tempo. Come Caritas siamo operativi con le nostre cliniche mobili che offrono un primo intervento ma senza poter garantire le cure di un ospedale. Non siamo attrezzati a curare feriti gravi. Stiamo chiedendo a Caritas Internationalis maggiori aiuti sanitari”. Caritas Jerusalem è presente a Gaza dal 2004 con diversi team mobili che lavorano lungo tutta la Striscia, occupandosi di bambini malati, donne incinte o anziani e offrendo anche supporto psico-sociale e attività per bambini traumatizzati dalla guerra. Il sistema sanitario è quello messo più a dura prova dalle proteste, ma i problemi di Gaza sono anche altri. E suor Tighe li elenca quasi in ordine sparso: “Dopo le ultime tre guerre, ravvicinate (2009, 2012 e 2014), la ricostruzione delle abitazioni e delle infrastrutture prosegue a rilento. Alcune famiglie sono rientrate in case parzialmente rifatte, altre attendono i lavori. L’energia elettrica viene erogata solo per 3 o 4 ore al giorno, insufficienti per far funzionare condizionatori e frigoriferi. La maggior parte dell’acqua disponibile non è potabile. Ora che si va verso l’estate le condizioni di vita peggioreranno ulteriormente, anche dal punto di vista igienico-sanitario. E mi riferisco soprattutto ai bambini, agli anziani, ai disabili, ai malati, ai più deboli. Le strade sono inondate da immondizia con evidenti ripercussioni sulla salute pubblica. Il sistema fognario è pressoché inesistente e i liquami sversano in mare. Manca il lavoro e la disoccupazione è altissima”.

“Cosa sarà di Gaza?” La Striscia oggi conta 2 milioni di persone su appena 360 chilometri quadrati con una densità di popolazione tra le più alte al mondo. E il numero dei suoi abitanti è in costante crescita. Inevitabile allora la domanda: “Se non cambiano le condizioni, cosa sarà di Gaza?”. “La cosa da fare adesso – risponde suor Bridget – è

porre fine al blocco israeliano, aprire i valichi così che le persone possano uscire per curarsi e per lavorare.

Perché questo è ciò che desidera la stragrande maggioranza della popolazione di Gaza. Questo è possibile perché Israele è assolutamente in grado di controllare e verificare ogni flusso. Come Caritas – ribadisce la direttrice – siamo contro la violenza da qualsiasi parte essa venga. La violenza non può essere la soluzione. Anche il blocco è una forma di violenza. Per questo crediamo che aprire i valichi, rimuovere il blocco potrebbe favorire un miglioramento delle condizioni di vita di Gaza e allentare la tensione palpabile”.

Ma non dipende solo da Israele. “I gazawi – afferma la direttrice di Caritas Jerusalem – sono in mezzo a due conflitti: Hamas contro Israele da un lato e Hamas contro Fatah, dall’altro. Non hanno nessuna speranza di futuro, non credono più nella riconciliazione interpalestinese.

I più giovani crescono covando rabbia. Hanno visto solo guerre e scontri,

costretti a vivere in condizioni impossibili, senza mai poter uscire oltre il muro che li imprigiona, incapaci di socializzare con il resto del mondo. E così disperati protestano al confine, quasi suicidandosi”. I dubbi della religiosa riguardano anche le intenzioni degli alleati storici dello Stato ebraico, gli Usa, e della comunità internazionale. “Cosa intendono fare per Gaza? Che altro deve accadere perché si faccia qualcosa almeno per migliorare la vita dei suoi abitanti?”.

“La sfida vera è dare un futuro a questo popolo

perché – sottolinea – la paura più grande è quella di nuova guerra”. Paura che aleggia forte soprattutto tra i circa 1000 fedeli della minoranza cristiana della Striscia.

Parrocchia Sacra Famiglia

Una comunità vulnerabile ma resiliente. “La comunità cristiana di Gaza – conclude suor Tighe – soffre come tutta la popolazione gazawa. Non sono perseguitati, molti cristiani lavorano all’interno di strutture pubbliche. Ma come tutte le minoranze sono molto vulnerabili. Tuttavia hanno un’estrema resilienza, come dimostrano i diversi progetti portati avanti al servizio della comunità”. Ma il rischio è l’estinzione:

“La preoccupazione del parroco latino, padre Mario Da Silva, infatti, è l’esodo dei fedeli. Essi quando hanno l’opportunità di uscire dalla Striscia, sotto Natale e Pasqua, difficilmente vi fanno ritorno, preferendo restare in Cisgiordania, anche se illegalmente.

Ci sono ragazze cristiane che, attraverso i social, cercano di conoscere dei coetanei a Betlemme, a Ramallah, così da iniziare una relazione ed eventualmente sposarsi, cosa che a Gaza è molto difficile per la scarsa possibilità di conoscere altri ragazzi cristiani”.