Da oltre seimila giorni, dal gennaio 2002, gli italiani vivono utilizzando euro e non più lire. Non hanno bisogno di cambiare recandosi, pagando o commerciando merci in gran parte del Continente. Tre anni prima dell’introduzione delle nuove monete e banconote fisiche, il mondo delle imprese aveva preso contatto con la valuta unica potendo utilizzare la doppia contabilità. La capacità di esportazione delle imprese migliori si è mantenuta senza svalutazioni competitive. Dopo le difficoltà iniziali, che hanno favorito rincari dei prezzi ingiustificati, anche i meno giovani hanno acquisito dimestichezza con i pezzi di metallo o le iridescenze della carta Bce. Che passi di mano in mano o su circuiti elettronici il valore dell’euro nelle transazioni non è contestato.
L’ultima generazione fatica a ricordare le 500 lire, il disegno delle 10mila lire e apprezza la capacità di comparare merci e servizi europei espressi in valuta unica.
Senza calcolatrice si può valutare se il prezzo del tal albergo, volo, concerto è più o meno caro. Non è così immediato, solo per restare fra i vicini di casa, in Svizzera o nel Regno Unito. Il consumatore, oltre a risparmiare una commissione di cambio, ha vantaggi di comprensione immediata delle convenienze e beneficia di una maggiore concorrenza di prodotti e servizi (provider telefonici, costo dei voli e tanto altro). Lo Stato piazza il suo debito pubblico a tassi contenuti.
Perché allora la formazione di un governo si è momentaneamente inceppata sul rischio che l’esecutivo esprimesse posizioni anti-europee e anti-euro così radicali da spaventare gli investitori esteri? Perché un potenziale ministro dell’Economia e delle Finanze è stato bloccato, sospettato di avere un piano segreto per tornare rapidamente alle lire? Vista l’età media (50 anni) del governo presieduto da Giuseppe Conte, con un vicepremier (Luigi Di Maio, 31 anni) non si tratta di nostalgie numismatiche. Dall’analisi del voto del 4 marzo è emerso che, fra gli elettori fino a 45 anni, sei voti su dieci sono andati alle due formazioni ora al governo (vedi Demopolis e altri).
Negli ultimi sondaggi effettuati a fine maggio (Ipr Marketing, Euromedia, Swg e altri) prevale la volontà di restare nella valuta unica, con una convinzione maggiore degli elettori dei 5Stelle rispetto ai sostenitori della Lega. Anche se di pochi punti il funzionamento dell’euro (inteso come moneta di scambio) è più gradito dell’Europa delle regole.
Non a caso l’uscita dalla moneta europea non è contemplata nel Contratto di Governo dove pure si esprimono critiche alla Ue.
Piace abbastanza l’euro, poco l’Europa unica. Quasi fosse possibile – ma non lo è – separare la discreta efficienza della valuta continentale dal suo contesto di regole comuni e medicine amare, direttive e vincoli, grandi progettualità collettive e debiti nazionali, fondi e burocrazie. L’euro nasce nella cultura delle banche centrali, viene prima la solidità dello sviluppo che favorisce il lavoro.
Viene contestato l’uso politico della moneta unica: l’obbligo comune della solidità può determinare scelte meno autonome dei Paesi periferici più affaticati (vedi Grecia) a vantaggio dei più forti.
In tutto il mondo gli elettorati stanno invece premiando chi proclama “territorio-first”. Dagli Usa alla Brexit, all’Ungheria e a tante parti del globo.
Senza Europa, e senza euro, anche la libera circolazione verrebbe ulteriormente ridimensionata.
Sono passati 31 anni dal primo programma Erasmus (European Region Action Scheme for the Mobility of University Students) che ha invece messo in movimento in Europa, negli ultimi anni, oltre 4 milioni studenti, per un decimo italiani con il coinvolgimento delle loro famiglie. Giovani che hanno potuto aggiungere lo studio alle altre esperienze, religiose e laiche, di viaggio internazionale. La cultura dell’incontro “senza frontiere” precede l’euro e si è rafforzata negli ultimi quindici anni con investimenti Ue crescenti. E’ un “Made in Europe” che, come molta parte del “Made in Italy”, ragiona tranquillamente oltreconfine.