Le “fedeltà” all’Europa e il rispetto dei trattati sottoscritti dall’Italia in sede Ue è diventato un elemento dirimente circa la formazione del governo. Nei giorni scorsi, prima del varo dell’esecutivo-Conte, si è anche parlato, a più riprese, di “uscire dall’euro” o di “andare a Bruxelles senza il cappello in mano”… Espressioni non sempre chiare in sé e che richiederebbero forse una lettura più articolata, considerando anche la complessità della materia economico-finanziaria e le sue possibili ricadute sulle famiglie, sulle imprese, sull’Italia e sull’Eurozona nel suo insieme. Abbiamo posto in questo senso alcune domande a Floriana Cerniglia, docente di Economia politica all’Università Cattolica di Milano e direttore del Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale.
Professoressa Cerniglia, partiamo da una valutazione generale: all’Italia – ovvero agli italiani – “conviene” far parte dell’Eurozona, che oggi comprende 19 Stati europei, fra i quali Germania, Francia e Spagna?
La risposta è sì per varie ragioni che qui non possiamo declinare tutte. Ricordiamone qualcuna. Innanzitutto l’entrata nell’euro per un Paese come l’Italia che aveva nel momento in cui ha aderito un debito pubblico elevatissimo e un onere del servizio del debito che in alcuni anni era stato anche del 10 per cento del Prodotto interno lordo (e pensiamo che la spesa in istruzione sul Pil è circa il cinque per cento del Pil…) ha comportato una discesa dei tassi di interesse che ci ha alleggerito di un enorme fardello liberando risorse per altre categorie di spesa pubblica. Quindi,
dopo l’entrata in vigore dell’euro aver goduto di tassi bassi è stato un vantaggio non da poco di cui si sono avvantaggiati tutti,
compresi i cittadini e le imprese che si potevano indebitare a tassi più contenuti. Anche durante la tempesta finanziaria senza l’euro e senza l’ombrello del quantitative easing di Mario Draghi ci sarebbero stati effetti catastrofici sull’Italia. Questi vantaggi non devono però farci dimenticare altre questioni legate all’euro, come ad esempio la mancata promessa di una maggiore crescita per tutti i Paesi che sono entrati nell’euro. Con l’introduzione dell’euro, non c’è stata più convergenza, ma più divergenza nei cicli economici e nei tassi di crescita dei Paesi dell’Eurozona. Alcuni Paesi sono cresciuti di più (il caso emblematico è, come noto, la Germania) e altri di meno con conseguenti effetti – mai sperimentati prima – di elevati tassi di disoccupazione, soprattutto quella giovanile.
Quali sono i motivi?
Credo che questo fallimento sia di tipo non solo squisitamente economico (ad esempio le ricette basate sull’austerità) ma sia soprattutto di tipo politico. L’economia è legata, o meglio dipende, dalla politica. La politica – o meglio diverse visioni politiche – in Europa oggi impedisce di fare riforme e accordi che permetterebbero all’euro di funzionare meglio. Quali sono queste visioni politiche? Sono essenzialmente due. La prima è quella che ritiene che quando una crisi colpisce uno Stato, se lo Stato ha i conti a posto riesce da solo ad assorbire questi shock; quindi solo perseguendo riforme strutturali in ogni Paese (ad esempio sul mercato del lavoro o nel sistema pensionistico) e una costante disciplina fiscale si può giungere a convergenza e crescita per tutti. La seconda visione, ritiene invece che con una moneta unica (e quindi con un tasso fisso tra tutti i Paesi) solo attraverso meccanismi di condivisione del rischio tra i Paesi il sistema può funzionare e non collassare. In sostanza occorre mettere in campo meccanismi di redistribuzione e condivisione del rischio come nei Paesi federali. In sintesi, se l’integrazione economica è sfalsata rispetto all’integrazione politica, la moneta unica non può esercitare al meglio tutti i vantaggi che aveva promesso, e che certamente ci potrebbero essere, per i cittadini europei.
È auspicabile, anzi necessario lavorare quindi sul fronte dell’integrazione politica altrimenti saremo perennemente esposti all’eventualità delle crisi con vincitori e vinti
e le inevitabili conseguenze sociali e di instabilità dei sistemi, anche all’interno degli Stati nazionali, di cui in questo momento siamo tutti preoccupati.
Non di rado, anche da economisti e personaggi politici, si sente dire: “Usciamo dall’euro”. Ma è davvero possibile? Quali le eventuali conseguenze dall’uscita dall’euro per il sistema economico italiano? Lavoro, famiglie, risparmi, imprese ne gioverebbero?
L’uscita dall’euro avrebbe conseguenze pesantissime per il nostro Paese e per i cittadini. Se da una parte l’uscita dall’euro consentirebbe di tornare ad una moneta, la lira, che potremmo svalutare per favorire le nostre esportazioni – ed è questo uno dei vantaggi rivendicati da quelli che vogliono abbandonare l’Eurozona – il prezzo complessivo di un’eventuale operazione di questo tipo sarebbe elevatissimo. Ad esempio sarebbero più cari i prodotti importati. Ma c’è un altro aspetto, non secondario, che bisogna considerare quando si invoca la svalutazione per incrementare la produttività e la competitività delle nostre imprese. Le imprese acquisterebbero un vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese sui mercati esteri solo se i salari reali che pagano ai lavoratori non aumentassero in linea con l’inflazione che la svalutazione porterebbe. Siamo sicuri che gli italiani sarebbero contenti di veder diminuire il loro potere d’acquisto? Faccio anche presente che, nonostante l’euro, l’Italia continua ad esportare moltissimo ed è leader mondiale in molti mercati. Non mi pare quindi che il problema dell’Italia sia svalutare per esportare di più.
Altri aspetti che gli italiani dovrebbero considerare prima di abbracciare un’ipotesi di uscita dall’euro?
Chi ha contratto dei debiti o dei mutui in euro (supponiamo di aver sottoscritto un mutuo che vale due volte lo stipendio annuo) vedrà aumentare il peso complessivo del proprio debito che una volta convertito in una moneta svalutata diventerà quindi di una proporzione più elevata rispetto al reddito annuo. Consideriamo infine un altro tema invocato da chi vuole uscire dall’euro: il debito pubblico. Si dice che se uscissimo dall’euro potremmo finanziare il nostro debito pubblico non aumentando le tasse o tagliando la spesa ma stampando moneta. In una battuta, non saremmo più “schiavi di Bruxelles” e la Banca d’Italia potrebbe tornare a fare quello che faceva negli anni Settanta: finanziare il deficit stampando moneta.Un “effetto collaterale” di questa operazione è una ripresa dell’inflazione, che, ricordiamolo, era una regolarità in Italia negli anni in cui si stampava moneta per finanziare il deficit.Stampando moneta, quindi, riprende l’inflazione che rappresenterebbe però anche un guadagno per il nostro Paese che ha molto debito (il più alto in Europa, dopo la Grecia). Se ad esempio l’inflazione diventa del 10 per cento, per lo Stato il valore reale del debito pubblico scende del 10 per cento. Ma se lo Stato ci guadagna, qualcun altro ci perde, e a perderci sono i cittadini che hanno prestato soldi allo Stato sottoscrivendo titoli del Tesoro. In sintesi, con l’incremento dell’inflazione a seguito di questa riacquistata “sovranità monetaria” si avvantaggia il pagante (cioè lo Stato) ma a perderci sono in primis coloro che attendono di essere pagati (i cittadini italiani che negli anni scorsi hanno appunto prestato soldi allo Stato). Il nostro debito pubblico non è solo in mano ad investitori stranieri, ma a tanti italiani!
Il Presidente Mattarella sembra confermare la collocazione dell’Italia nel cuore dell’Europa comunitaria. A suo avviso il Capo dello Stato ha svolto il proprio ruolo entro il quadro costituzionale, e guardando all’economia del Paese, oppure no?
Non sono una costituzionalista e ho letto, tra gli stessi costituzionalisti, interpretazioni differenti. Quel che mi pare assodato è che l’Italia abbia, nei confronti dell’Unione europea, acconsentito a cessioni di sovranità, come dice l’art. 11 della Costituzione, sicché legittimamente e doverosamente il Presidente vigila sulla collocazione europeistica del nostro Paese.
Nel rispetto della Costituzione non è più data la scelta tra “dentro” o “fuori” l’Ue, nemmeno con eventuali referendum ad hoc;
ma è sempre possibile, ed anzi auspicabile, poter discutere delle politiche economiche europee. In questa prospettiva, a mio avviso andrebbe inquadrato il giudizio sull’operato del Presidente, se cioè fosse necessario bloccare una nomina ministeriale perché minacciosa per la collocazione europeistica dell’Ue o se, viceversa, non abbia prodotto una sorta di scivolamento soft sul terreno dell’indirizzo politico che si prospettava e che intendeva, anche energicamente, rimettere in discussione le politiche economiche comunitarie. Ogni ipotesi di impeachment mi è apparsa però totalmente fuori luogo.