Era l’inizio del 2016 quando l’accordo Ue-Turchia chiudeva la “rotta balcanica” attraverso la quale l’anno precedente circa 764mila rifugiati si erano incamminati verso i Paesi dell’Europa occidentale. Da allora il numero degli arrivi è diminuito notevolmente. I migranti però non sono scomparsi: muri, fili spinati e ostilità hanno solo reso il viaggio più pericoloso. Dopo la chiusura, alcune migliaia di persone sono rimaste bloccate in Serbia con la speranza di poter proseguire il viaggio della speranza, mentre dall’inizio del 2018 il flusso di persone ha trovato altre strade attraverso Grecia, Albania e Montenegro fino alla Bosnia-Erzegovina. Lo meta – la poco sorvegliata frontiera con la Croazia porta verso la “terra promessa” – è la Germania oppure i Paesi scandinavi.
600% di migranti in più. “Secondo le stime delle autorità e l’Alto commissariato Onu per i rifugiati 5.116 migranti sono entrati in Bosnia-Erzegovina dall’inizio dell’anno”, spiega al Sir Dijana Muzicka, coordinatrice dell’emergenza della Caritas Bosnia-Erzegovina. Addirittura, il ministro della sicurezza Dragan Mektic parla di un aumento pari al 600-700%. Con l’arrivo dell’estate e del bel tempo, poi, i numeri sono in aumento. “Fare delle previsioni o semplici calcoli però è impossibile. Da due settimane il governo controlla maggiormente i confini e non è chiaro come si evolverà la questione – chiosa l’operatrice Caritas –. Ogni settimana la polizia respinge circa 200 persone alla frontiera.
La tendopoli nel parco. La prima tappa di solito è Sarajevo, dove presso l’Ufficio stranieri i migranti possono fare domanda di asilo. “All’inizio sia le autorità che le organizzazioni caritative erano colte di sorpresa, non c’erano luoghi per accogliere la gente, mancava cibo, acqua, tutto”, continua il racconto la Musicka. Così nel centro storico della capitale bosniaca, di fronte alla Biblioteca nazionale è nata una tendopoli con condizioni disastrose.I cittadini di Sarajevo hanno teso la mano alle persone raccolte in quelle condizioni.“Ciascuno qui ricorda molto bene la guerra e che cosa significa essere profughi”, rileva Daniele Bombardi, rappresentante della Caritas italiana nei Balcani, sottolineando il fatto che dai primi arrivi ad ottobre i vescovi cattolici hanno dato mandato alla Caritas di occuparsi dei migranti.
Le autorità non erano pronte. Caritas Bosnia-Erzegovina è dunque in prima fila per aiutare i migranti. “Dall’inizio abbiamo partecipato nella stesura del piano per i migranti sotto la guida del ministero per i rifugiati, il dicastero competente nato per i rifiguati interni della Bosnia-Erzegovina negli anni Novanta”, spiega la Musicka. Per reagire in modo concreto però bisognava aspettare il via libera delle autorità. Secondo l’operatrice Caritas, “le autorità stanno facendo il necessario ma tutto procede molto lentamente”. La Bosnia-Erzegovina è un Paese con struttura amministrativa complessa a causa del trattato di Dayton e l’inclusione delle varie etnie nei diversi gradi di amministrazione. La questione migranti diventa problematica anche in vista della campagna elettorale in corso per le elezioni politiche programmate per il 7 ottobre.L’esempio più eclatante è stato lo spostamento dei migranti dal parco di Sarajevo al centro di Salakovac, vicino a Mostar.“Il governo aveva organizzato cinque pullman per trasferire le persone ma una volta giunti nel territorio del cantone vicino, Herzegovina-Neretva (un cantone misto con popolazione croata e bosniaca), la polizia locale ha fermato gli autobus”, racconta l’operatrice Caritas. Per ore i migranti, tra cui anche diversi bambini, hanno aspettato per la strada che il governo risolvesse la questione. D’altro canto, l’altra entità, la Repubblica serba, ha categoricamente rifiutato di accogliere alcun migrante sul suo territorio.
Cinque campi raccolta. Secondo il piano del governo federale, partito a metà maggio, sono previsti cinque campi per la raccolta dei migranti che entrano in Bosnia-Erzegovina: Delijas, Salakovac e Bihac che già funzionano e Hadzici, vicino Sarajevo e Doboj Jug in via di allestimento. I rifugiati tendono ad arrivare al confine con la Croazia, nelle città di Bihac e Velika Kladusa per provare a passare la frontiera. “A Bihac ci sono 500 persone e molte hanno trovato rifugio in un vecchio studentato ma si tratta di strutture abbandonate e nonostante i lavori in corso le condizioni sono pessime”, racconta l’operatrice della Caritas locale. I letti sono solo 40, c’è bisogno di altri posti per dormire, materassi e coperte.
Ristoratore generoso. A Velika Kladusa, l’altra città al confine dove si contentrano i migranti, uno dei ristoratori locali ha deciso di aiutare i migranti. Ogni giorno fornisce 200-250 piatti caldi. “Continuare questo servizio per mesi però è risultato difficile”, ammette Bombardi. La Caritas per ora è pronta ad aiutare sia all’interno dei campi che fuori, a Delijas è stato organizzato un punto di ricreazione per le persone con tè, caffè e biscotti.“Cercheremo di intervenire laddove le istituzioni non ce la fanno per aiutare i bisogni concreti della gente”,aggiunge il rappresentante della Caritas italiana nei Balcani. A giugno sarà pronta anche una casa a Sarajevo per ospitare i migranti più vulnerabili: famiglie, donne incinte, minori non accompagnati. Inoltre, lo staff della Caritas Bosnia-Erzegovina ha raccolto l’esperienza dei colleghi di Belgrado che operano all’interno dei campi in Serbia.
La frontiera minata. Molti dei migranti che entrano da sud in Bosnia-Erzegovina ad un certo punto scompaiono, probabilmente riescono a passare la frontiera verso nord. I varchi ufficiali però sono chiusi per loro e i primi Paesi sono lontani dal confine, c’è da camminare parecchi chilometri.A metà maggio un ventunenne afgano, Ihsan Udin, è annegato nel fiume Korana che divide la Bosnia dalla Croazia.“I rifugiati lamentano che la polizia croata usa metodi poco accettabili”, afferma Bombardi ricordando il recente episodio “nel quale due ragazzini sono rimasti feriti mentre le forze dell’ordine hanno sparato ad un pulmino che trasportava migranti”. A suo avviso “la violenza non scoraggia le persone i cui diritti minimi dovrebbero essere rispettati”. Nelle montagne sul confine, però, ci sono altri pericoli, “lì è tutto minato – precisa – e non sappiamo quanto i migranti siano informati di questo rischio”.