“Purtroppo la guerra non è finita. Ci sono zone dove gli scontri e i bombardamenti sono terminati ma in altre si continua a combattere. Tra queste c’è tutta la provincia di Idlib, nel nord-ovest del Paese, dove vivono oltre 2,5 milioni civili, che è nelle mani dei ribelli. Qui il rischio di un’escalation del conflitto con gravi conseguenze per la popolazione è molto alto”.
Il campo di battaglia siriano non smette di bagnarsi di sangue e il nunzio apostolico in Siria, il card. Mario Zenari non smette mai di denunciarlo. Lo ha fatto anche in questi giorni partecipando ai lavori della 91ª Assemblea plenaria della Roaco – la Riunione delle Opere per l’Aiuto alle Chiese Orientali – i cui membri questa mattina sono stati ricevuti in udienza da Papa Francesco. Nel testo consegnato ai presenti, il Pontefice ha ricordato la testimonianza evangelica delle Chiese orientali cattoliche “duramente provata, spesso attraverso dolori e persecuzioni, dapprima da parte dei regimi totalitari dell’Europa Orientale, poi, più di recente, da forme di fondamentalismo e fanatismo con pretesti religiosi e dai conflitti che sembrano non voler cessare soprattutto in Medio Oriente”. Tra i temi discussi durante la Roaco la situazione delle Chiese in Medio Oriente, con particolare attenzione alla Turchia, alla Siria, all’Iraq e alla Terra Santa. A margine della Roaco, il Sir ha incontrato il card. Zenari con il quale ha fatto il punto sulla situazione nel Paese arabo.
Eminenza, è di questi giorni la notizia che l’inviato per la Siria delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, ha discusso a Ginevra “la formazione di un Comitato costituente” per la Siria con rappresentanti di Turchia, Russia e Iran, i Paesi garanti dei negoziati di Astana. L’Onu considera fondamentale la creazione di questo Comitato e il regime di Damasco ha già proposto 50 nomi. Forse si comincia ad intravedere qualche timida luce nel cammino negoziale?
Le difficoltà sono molte. Una delle prime tappe è redigere una nuova Costituzione, ma formare la Commissione costituente non sarà facile. Si tratta, infatti, di un lavoro che richiederà tempo perché non tutte le parti in causa sono d’accordo nella scelta dei membri. La strada è lunga.
La Santa Sede come giudica questa iniziativa del Comitato costituente?
La Santa Sede appoggia tutte le iniziative di pace che possano aiutare la Siria ad uscire da questo clima di violenza e favorire una soluzione politica.
Anche l’incontro ecumenico promosso da Papa Francesco, il 7 luglio a Bari, per pregare per la pace in Medio Oriente rientra in queste iniziative di pace?
L’incontro di Bari, cui sono stati invitati tutti i patriarchi del Medio Oriente e di tutte le Chiese orientali, è un’iniziativa molto bella e opportuna. La Santa Sede lavora su tutti i fronti: su quello spirituale, con l’arma della preghiera – ricordo, a riguardo, la giornata di preghiera e di digiuno per la Siria del 7 settembre 2013, voluta sempre da Papa Francesco e che ebbe un grande successo -, su quello della carità, con l’assistenza umanitaria e sul fronte diplomatico che vede il Pontefice incontrare leader politici, Capi di Stato, personalità che hanno responsabilità di Governo. Tra i primi punti dei colloqui di Papa Francesco c’è sempre il Medio Oriente e la Siria. Un’attività intensa che non conosce sosta e che continua anche attraverso i rappresentanti del Papa nelle sedi degli organismi internazionali a New York, a Ginevra, a Strasburgo e nelle nunziature dei Paesi coinvolti.
L’obiettivo è fermare la violenza e trovare una soluzione politica.
Si comincia a parlare di ricostruzione, in particolare di quella materiale. Ma poco si parla di quella sociale e morale della Siria…
In questa opera bisogna mettere tutta l’anima. È importante ricostruire i palazzi, le case e i focolari – e questo sarà fatto una volta finita la guerra con l’aiuto della comunità internazionale – ma sarà ancora più importante risanare le ferite interiori e curare l’odio che si è propagato in questi anni. Si tratta di un lavoro immane che richiederà tempo. In questa ricostruzione del tessuto sociale siriano sarà importante il ruolo delle religioni.
Che peso hanno le religioni in questo conflitto?
Non è una guerra di religione
ma è, per certi aspetti, una guerra civile, almeno all’inizio, diventata poi regionale e internazionale. Se si guarda a quella siriana come a una guerra civile, con cittadini dello stesso Paese che si combattono da fronti opposti, allora le religioni devono impegnarsi per portare un po’ di pace tra la gente. È una sfida enorme per le religioni, in particolare per quella musulmana professata dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Chi rischia di scomparire dalla Siria è la minoranza cristiana. I cristiani siriani oggi non arrivano al 2% della popolazione…
La guerra ha decimato le nostre comunità. Si stima che la metà della popolazione siriana abbia lasciato il Paese.
Una ferita enorme per la Siria e per le Chiese locali.
Il contributo dei cristiani alla Siria, se guardiamo alla storia, è sempre stato molto importante: durante la Renaissance araba, nel campo letterario, artistico e anche politico, con tante personalità di spicco. Basti dire che lo stesso fondatore del partito Baath era un cristiano ortodosso. Nel campo dell’assistenza sanitaria, con ospedali, cliniche e ambulatori, dell’istruzione con le scuole.
I cristiani per la Siria, ma credo si possa dire per tutto il Medio Oriente, sono come una finestra aperta sul mondo grazie al loro spirito aperto e tollerante. Nei villaggi misti tutti si trovano bene con i cristiani. Ogni famiglia cristiana che parte è una finestra sul mondo che si chiude.
Come giudica la scelta di Libano e Giordania di promuovere il rientro in patria delle centinaia di migliaia di rifugiati siriani che lì hanno trovato riparo dalla guerra?
Il sogno dei siriani è di rientrare nelle loro terre e case.
Ce ne sono 12 milioni fuori dei loro villaggi, in pratica la metà della popolazione. La stragrande maggioranza di questi 12 milioni sogna il proprio focolare e non appena intravede una minima possibilità, con la fine della violenza, cerca di tornare anche se la propria abitazione è del tutto distrutta, sventrata, priva di finestre, porte, senza luce e acqua. Ma rientrano e ricostruiscono. Ognuno di noi ha nel proprio Dna il focolare, la casa.
Non c’è bisogno di spingerli per farli rientrare.
Ora vivono, in massima parte, sotto le tende. Tuttavia è importante che ci siano le condizioni perché possano rientrare. Si tratta di gente semplice, anziani, donne e bambini che sognano solo la loro casa, è questo il loro mondo. Purtroppo non sempre queste condizioni ci sono.
È anche per ascoltare il grido di questa povera gente che con la Fondazione Avsi ha messo in campo il progetto “Ospedali aperti in Siria”?
“Ospedali aperti” è un progetto che rientra in un contesto in cui la metà dei 111 ospedali pubblici siriani è stata messa fuori uso come anche gli oltre 1800 centri di primo soccorso. Noi abbiamo tre ospedali cattolici, due a Damasco e uno ad Aleppo, che lavorano da oltre un secolo in Siria che si sono trovati obbligati a chiudere qualche servizio perché la gente non ha più assistenza mutualistica a causa della perdita del lavoro a causa della guerra. Il 70% dei siriani oggi vive in estrema povertà e gestire questi ospedali ha un costo enorme, pensiamo solo al prezzo dell’energia elettricità o del gasolio. L’alternativa era o chiudere o fornire solo il 30% dell’assistenza.
Abbiamo così elaborato questo progetto che richiede fondi consistenti e che permette a chi è povero e non può pagarsi l’assistenza sanitaria di essere curato gratuitamente. Offriamo cure gratuite a tutti, senza distinzione etnica e religiosa.
Quali sono i risultati finora ottenuti?
Dallo scorso novembre nei tre ospedali registriamo lunghe liste di attesa e prenotazioni. Le ultime statistiche parlano di una media di 400 pazienti curati gratuitamente ogni settimana. E i numeri sono in aumento. La maggioranza degli interventi sono operazioni chirurgiche. I malati arrivano da ogni parte della Siria, da Raqqa, dal Ghouta orientale, da Deir Ezzor.
Tanti musulmani ci sono riconoscenti
perché hanno la gradita sorpresa di ricevere cure gratuite. La loro mentalità è quella che un musulmano cura un musulmano e un cristiano aiuta un cristiano. Quando vedono che i cristiani curano anche i musulmani questi cambiano atteggiamento. Un bel segno di solidarietà e convivenza che dona speranza per il futuro della Siria.
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