Il pastore evangelico John Sang Chang fino allo scorso anno ha accompagnato la sua predicazione ad un progetto formativo in ben 16 scuole del Myanmar. Mentre attraversava il confine con la Cina è stato fermato da funzionari della polizia con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e a marzo è stato condannato a 7 anni di prigionia. “Ha perso più di 20 chili in pochi mesi”, racconta la moglie, Jamie Powell, che assieme al figlio ha percorso ben 16mila chilomentri pur di vederlo, ma giunta alla prigione si è vista negare il permesso di ingresso.
Tahir Hamut, invece, è un musulmano uiguro proveniente dalla regione dello Xinjiang, sempre in Cina, ma ora vive negli Stati Uniti dopo essere fuggito da uno dei centri di rieducazione politica, veri e propri lager, dove il governo di Pechino detiene migliaia di appartenenti a questa minoranza di origine turca e fedele all’Islam. “Esistono restrizioni senza precedenti sulla nostra vita religiosa e il governo ha confiscato e bruciato libri sacri e demolito decine di moschee”, ha spiegato Tahir che continua a parlare la lingua del suo popolo e affida la commozione al suo traduttore. Non ci sono famiglie tra gli uiguri che non abbiano almeno uno dei componenti in carcere.
La tragicità e la veridicità delle testimonianze, il dolore ancora vivo sui volti dei sopravvissuti sono stati i principali protagonisti del primo “Ministerial To Advance Religious Freedom”, un incontro organizzato dal Dipartimento di Stato americano sulla difesa della fede, della libertà di professione, sulla tutela delle minoranze religiose.
All’appuntamento di Washington che si è tenuto dal 24 al 26 luglio erano presenti 370 tra esponenti di governi, di organizzazioni impegnate nella difesa della libertà di religione e rappresentanti di ebrei, cristiani, indù, buddisti, baha’i, musulmani, sikh, yazidi e di molte minoranze religiose perseguitate.
L’ambasciatore degli Stati Uniti per la libertà religiosa, Sam Brownback, ha ricordato i luoghi dove vivere e testimoniare la propria fede è, ancora oggi, estremamente travagliato e pericoloso. Nigeria, Cina, Myanmar, Turchia, Iraq, Tibet sono solo alcuni dei Paesi citati per sollecitare l’impegno dei leader presenti a una collaborazione serrata in soccorso di tutti i perseguitati. “Abbiamo bisogno di spostare il mondo dalla tolleranza delle differenze – anche se è importante – alla cura e all’amore sincero delle persone, indipendentemente dalle differenze perché la libertà religiosa è un diritto dato da Dio per tutti e appartiene alla dignità della persona”. Ed è con commossa dignità che Jacqueline Brunson Furnari, figlia del pastore americano detenuto per mesi in un carcere turco e trasferito agli arresti domiciliari, proprio nel secondo giorno di convegno, ha raccontato la Via Crucis personale e di tutta la famiglia. Parla del sogno di avere il papà che la accompagni all’altare il giorno delle nozze e che aspetta quel momento con fede, nonostante si sia sposata civilmente da qualche mese.”Io sto ancora aspettando di indossare il mio abito da sposa e di celebrare le nozze con papà. E chi di voi ha figlie può capire”.
Il vicepresidente Mike Pence, intervenendo in apertura del terzo giorno, ha minacciato sanzioni molto serie contro la Turchia se non provvederà al rimpatrio del pastore Brunson, considerato dall’amministrazione americana un ostaggio politico, poiché un Paese Nato ha imprigionato senza ragioni provate il cittadino di un altro Paese Nato. Nel suo discorso Pence ha annunciato anche una serie di misure economiche a sostengo della protezione della libertà religiosa.
Saranno stanziati ben 110 milioni di dollari per finanziare il “Genocide and Response Program” in soccorso delle vittime di persecuzioni in particolare in Medio Oriente
dove “le persone grazie a questi aiuti potranno tornare alle loro radici e far rifiorire le loro terre”. A questo viene affiancato un fondo, il “New International freedom found”, cofinanziato dai governi che promuoverà eventi e iniziative volti a favorire la crescita della libertà religiosa.
Una libertà negata ancora in Pakistan, dove Peter Bhatti, fratello del politico cristiano Shahbaz Bhatti, ucciso nel 2011 racconta come i musulmani pakistani utilizzano la violenza e la morte per risolvere le controversie personali con le minoranze religiose. Ma anche la violenza fisica e lo stupro delle donne sono diventati tra i peggiori strumenti usati nei confronti delle minoranze. A raccontare particolari raccapriccianti di queste esperienze è Razia Sultana, avvocato del Bangladesh di origine Rohinga che non lesina accuse al governo del Myanmar per quanto sta compiendo sul suo popolo:
“Interi villaggi musulmani vengono rasi al suolo e gli stessi templi buddisti diventano fortini di guerra da cui si spara e non si prega”.
Le stesse atrocità, attraverso un originale e delicato film a fumetti, sono state raccontate da Mark Burnett, che ha raccolto le testimonianze di decine di donne, violate dall’Isis e ha mostrato quale ferocia i guerriglieri del califfato abbiano usato nello sterminio di intere famiglie nei villaggi cristiani della piana di Ninive. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha condensato in cinque punti lo sforzo diplomatico del governo americano nella difesa della libertà religiosa che entra ufficialmente tra le priorità della politica estera del governo Trump poichè integra la strategia sulla sicurezza e sulla pace. Tra i progetti illustrati da Pompeo, ci sono vari programmi di formazione della leadership sul tema della difesa delle fedi, ospitati sia negli Usa che all’estero, le parterniship su progetti finanziati dal governo statunitense e l’adozione della dichiarazione di Potomac, dove la libertà religiosa viene considerata essenziale per “raggiungere la pace e la stabilità all’interno delle nazioni e tra le nazioni, poichè se questa libertà è protetta lo sono anche le altre libertà da quella di espressione, a quella di associazione e di riunione pacifica e i paesi prosperano, mentre dove è assente a prosperare sono conflitti, instabilità e terrorismo”.
L’esperimento promosso dal Dipartimento di stato si è concluso con successo e si prospetta già una seconda edizione. Restano sul tappeto alcune criticità imputabili anche ai rapporti presidenziali con alcuni dei Paesi considerati tra i maggiori violatori dei diritti umani, come ad esempio la Corea del Nord e la Russia, mentre non poche ombre permangono sulla strategia americana sul Medio Oriente. A ciò si aggiungono valutazioni non positive sulle politiche adottate dall’amministrazione attuale nei confronti dei Paesi musulmani, ai cui cittadini è vietato l’ingresso negli Usa e su cui sono state spese parole e tweet di sospetti e accuse. Sul fronte politico interno, poi, permangono negli occhi di tutti le immagini dei rifugiati iraqeni di Denver deportati dalla polizia nonostante il rischio della vita. La dichiarazione di Potomac e il suo piano esecutivo hanno la possibilità di trovare già all’interno degli Stati Uniti un laboratorio di attuazione e se i risultati dell’esperimento funzioneranno saranno una credibile testimonianza per tanti altri governi.
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