Massimo Giraldi, Sergio Perugini
“Roma” di Alfonso Cuarón ha messo d’accordo proprio tutti, dalla giuria unanime guidata dal Guillermo del Toro a stampa e pubblico. Il “Leone d’oro” della 75ª Mostra del Cinema di Venezia al film messicano è una conferma della qualità del concorso proposto da Alberto Barbera, con una carica di autori di peso soprattutto da Europa e America. Il dato che emerge dal verdetto è la vittoria di Netflix, che ha prodotto il film di Cuarón e altri titoli in gara, provocando le proteste di autori ed esercenti. Netflix entra così di peso nelle dinamiche produttive, distributive e dei premi (Oscar in testa) dell’industria dell’audiovisivo. Ripensando ai timori del Festival di Cannes di quest’anno, forse Venezia con fiducia si è lanciata verso il futuro. Il bilancio dell’Agenzia Sir e della Commissione nazionale valutazione film della Cei.
Premi tutti meritati, con qualche incertezza
Il Leone d’oro per “Roma” è stato pronosticato sin dall’inizio per la grande qualità dell’opera, il coraggio del regista Alfonso Cuarón di rinunciare alle logiche degli Studios hollywoodiani per tornare a raccontare una storia “piccola”, il suo passato in Messico negli anni ’70, scegliendo il bianco e nero e la lingua spagnola.
Mettendo da parte però il premio principale, come valutare le altre scelte della giuria di Venezia 75?
Certo, il Leone per la miglior regia a Jacques Audiard per “The Sisters Brothers” è pienamente condivisibile, proprio perché Audiard ha saputo calarsi nelle logiche del mito del West, non conformandosi allo stile classico ma arricchendolo di sfumature e visioni personali. La vera e unica insidia per Cuarón.
Ottime le scelte per la Coppa Volpi, andate a Olivia Colman, per la febbrile interpretazione della regina Anna in “The Favourite” di Yorgos Lanthimos, e a Willem Dafoe, sofferto e poetico van Gogh in “At Eternity’s Gate” di Julian Schnabel.
Le soprese (non troppo riuscite). Se convince il premio Mastroianni per l’esordiente Baykali Ganambarr, interprete di “The Nightingale” di Jennifer Kent, lascia più perplessa la scelta della giuria di assegnare allo stesso film il Premio speciale. È sembrata un’operazione “politicamente corretta” per mettere a tacere le polemiche sull’unica regista donna in competizione, tra l’altro offesa con un insulto in occasione della presentazione del suo film. Pieno sostegno all’autrice e al suo impegno, ma il film non era solido a livello formale e con contenuti altamente problematici, anche per motivi morali. La regista, infatti, sembra voler dire con il suo film (a tesi) che alla violenza si può rispondere solo con altra violenza, con la vendetta.
Bene che i fratelli Coen siano stati premiati. Il loro è sempre un cinema di primo piano, godibile e convincente; forse, però, la sceneggiatura non era il punto forte del loro film “The Ballad of Buster Scruggs”. Avrebbe meritato quel riconoscimento “Double vies”, l’acuto e divertente film di Oliver Assayas.
L’Italia fuori dal podio, tra concorso e Orizzonti
Spiace per i tre autori italiani – Martone, Guadagnino e Minervini – esclusi dai premi; quello con più opportunità era probabilmente Martone, per il suo coinvolgente racconto dell’Italia a un passo dalla Grande guerra, vista con gli occhi di una giovane che sogna il mondo. C’è da dire che la proposta italiana era sperimentale, ma forse non del tutto compatta al punto da competere con i titoli di Cuarón, Audiard, Lanthimos, Coen o Assayas.
In più, c’è un pizzico di rammarico per “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, ignorato dai premi della sezione Orizzonti. L’opera che ha riportato in primo piano il drammatico caso di Stefano Cucchi aveva buone possibilità di riconoscimenti.
21 film e temi ricorrenti: storia, donna, sfide alla società
Nel complesso i 21 titoli della Mostra ci consegnano un racconto sfaccettato della società odierna e delle sue pieghe problematiche, dove tra i tanti temi troviamo il ruolo talvolta invasivo dei media, la corruzione del potere, l’urgenza di una maggiore equità sociale e un’attenzione al ruolo della donna.
Da rilevare, il ricorrente racconto del passato, tra XVIII e XX secolo, per parlare all’oggi, tracciandone pericoli, eccessi e paure. Tra questi: “Peterloo” di Leigh, “The Favourite” di Lanthimos, “Capri-Revolution” di Martone o “Napszállta” di Nemes.
Da non trascurare, infine, lo sguardo sui giovani, investiti da pesanti pressioni e con pochi punti di riferimento, come emerge ad esempio nei problematici “Acusada” di Tobal e “22 July” di Greengrass. Proprio l’opera di Greengrass – che ricostruisce gli attentati di Oslo nel 2011 – da feroce fatto di cronaca si trasforma in un potente messaggio d’incoraggiamento alle nuove generazioni a reagire al peggio, a sognare un domani di speranza e inclusione nonostante le difficoltà.
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