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I migranti scomparsi sono “i nuovi desaparecidos”

Patrizia Caiffa

“Da quando nostro figlio è scomparso tutto è cambiato. E’ un inferno che non ti posso raccontare, che non puoi neanche immaginare”. A parlare è  la madre di Raouf Hidouci, algerino, di cui non si hanno più notizie dal 15 marzo 2007. Da quel giorno maledetto in cui ha deciso di prendere una delle “barche della morte” per fare la traversata nel Mediterraneo, è quasi diventata cieca a forza di piangere. “Sono dieci anni che piango, i miei occhi non hanno più lacrime”. Lei e il marito vivono ad Annaba, in Algeria, e ancora stanno cercando quel ragazzo “buono e altruista” nato dell”84 di cui si sono perse le tracce dopo essere stato intercettato in mare e riportato in Tunisia. Forse torturato in carcere, forse scambiato erroneamente per un terrorista. La loro storia e quella di tanti altri familiari di coloro che vengono definiti “i nuovi desapararecidos” è raccolta in un video e pubblicata sul sito “Missing at the borders“, un progetto che vuole dare voce al dolore delle famiglie dei migranti morti, scomparsi o vittime di scomparsa forzata nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. L’iniziativa è autofinanziata e promossa da una rete di organizzazioni attive su entrambe le sponde del Mediterraneo, capofila Milano senza frontiere, che organizza da tre anni, ogni primo giovedì del mese, una marcia silenziosa a piazza della Scala con le foto di alcuni migranti algerini e tunisini scomparsi durante o dopo la traversata nel Mediterraneo, sullo stile delle madri e nonne argentine di Plaza de Mayo. Partner dell’iniziativa sono Como senza frontiere, Palermo senza frontiere, Carovane migranti, Association des travailleurs de France, Alarm phone e Watch the Med, una piattaforma internazionale che segnala i natanti in difficoltà e monitora le violazioni dei diritti umani. Il principio che muove il progetto “Missing at the borders” è molto semplice: “Sono persone, non numeri”. Dall’inizio del 2018 oltre 1.500 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo, decine di migliaia dal 2000 ad oggi. La richiesta di attivisti e famiglie dei migranti che viaggiano in maniera irregolare – in arabo “harragas” – è tanto semplice quanto incredibilmente impraticabile con le politiche europee di oggi: dare la possibilità di entrare regolarmente in Europa per non costringere le persone a rischiare la vita affidandosi ai trafficanti di morte.

Le voci dei familiari. Toccanti sono le testimonianze in video dei parenti dei migranti scomparsi. Meherza Raouafi, madre di Mohamed, abitava in Tunisia i sei figli mentre il marito lavorava da 30 anni in Francia per mantenerli. Di Mohamed non si sa più nulla dal 14 marzo 2011. A 18 anni si è imbarcato per raggiungere la sorella che lavora a Parigi come parrucchiera per fare lo stesso mestiere. “E’ il più vivace dei miei figli – racconta Meherza, parlando al presente -. Fa solo quello che gli piace e non ascolta nessuno.

E’ uscito di casa alle 5 del mattino e mi ha telefonato dalla barca chiedendomi di dargli la benedizione perché era in mare.

Alle 21.30 mi ha detto che avevano toccato terra. Da allora non l’ho più sentito”. Dopo 25 giorni di angoscia Euronews diffonde un video che alcuni parenti in Germania le segnalano. Si vede un barcone e, tra i tanti migranti, Mohamed che, con la mano alla gola urla: “No Tunisia”, a gridare la sua disperazione per non farsi rimpatriare. Poi, più nulla, nonostante richieste, denunce e proteste presso le varie istituzioni. “Nessuno ha avuto pietà di noi – dice Meherza -, come se non fossimo tunisini, come se non fossimo esseri umani. Il sangue umano ha così poco valore?” Non sa se suo figlio è in qualche carcere o se è morto. Il suo dolore di madre è irriducibile:

“Sono pronta ad andare a piedi fino in fondo al mare. Non voglio niente, tranne la verità”.

“Come pensate che possa dimenticare mio figlio? I miei figli sono la mia vita”: scoppia in un pianto sommesso Boubeker Seddik Sabouni, padre di Faycel. Abita ad Annaba, in Algeria, ha altri tre figli ma la moglie è morta gridando il nome di Faycel, di cui non ha più notizie dal 24 maggio 2007. “Mi diceva che voleva andare all’estero con l’amico marinaio che lavorava su una nave – racconta – invece sono saliti in 7 su una barca e da allora non l’ho più sentito”. Alcuni giorni dopo uno dei 7 ha telefonato al fratello, chiedendogli di chiamare i soccorsi perché rischiavano di annegare. I parenti di Faycel sono corsi dalla guardia costiera algerina, sono andati anche in Tunisia, hanno trovato solo una persona in stato di fermo. Degli altri compagni di viaggio, nessuna traccia. Il padre di Faycel da allora non si dà pace, è diventato diabetico e accumula malattie a disperazione.

I migranti sono i “nuovi desaparecidos”. Racconta Enrico Calamai, ex vice console italiano in Argentina nei famigerati anni ’70 e membro del Comitato Verità e giustizia per i nuovi desaparecidos: “I familiari dei migranti si sono conosciuti cercando i loro figli negli ospedali, nei ministeri, nei commissariati andando a fare denuncia. Ciò che di fondamentale li accomuna è l’aver fatto un salto di coscienza e di conseguenza non accettare che la loro tragedia sia dovuta ma agire per avere giustizia e far sì che, anche grazie alle loro testimonianze, nel futuro episodi simili non si ripetano”. Il progetto “Missing the borders”, spiega Edda Pando, di Milano senza frontiere, reclama “giustizia, verità e dignità per le famiglie”: “Chiediamo risposte concrete su quanto successo ai loro familiari scomparsi, che l’Unione europea cessi di esternalizzare la sorveglianza delle frontiere e che sia garantito a tutti e tutte la libertà di movimento”.

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