“Dal 2013, c’è stato un boom di pellegrini a Brancaccio: non solo di chi andava cercando un prete antimafia o faceva il tour dei morti ammazzati a Palermo, ma anche di tante parrocchie e sacerdoti che volevano vedere i luoghi di don Pino da vicino, il suo modo di fare pastorale e di annunciare il Vangelo”. A rivelarcelo è don Maurizio Francoforte, parroco a San Gaetano da dieci anni. Il 15 settembre Papa Francesco arriverà qui alle 15, per una visita strettamente personale di preghiera nella parrocchia in cui il prete palermitano è stato parroco dal 29 settembre 1990. A Brancaccio “3P”, come tutti lo chiamavano, è già santo: il desiderio, che trapela in modo irresistibile, è l’annuncio della canonizzazione da parte del primo Papa della storia della Chiesa a mettere piede in questo quartiere della periferia palermitana. “Lui è già santo, non ci vogliono tanti miracoli. Nel mio Paese, in Uganda, abbiamo i nostri martiri: voglio che anche voi studiate i vostri martiri sui banchi di scuola”. Sono le parole di suor Jacinta, che dall’Uganda è ora al Centro Padre Nostro, fondato 27 anni fa da don Pino, e tra le altre attività fa da guida alla casa-museo allestita nell’abitazione in piazza Anita Garibaldi, davanti alla quale è stato ammazzato dalla mafia esattamente 25 anni fa, il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno. Sarà quello il secondo momento della visita del Papa a Brancaccio. Poi Francesco si sposterà in cattedrale per l’incontro con il clero, seguito da quello con i giovani a Piazza Politeama.
Familiarità e capacità di generare persone nuove. Don Maurizio riassume in queste due caratteristiche il motivo per cui don Pino continua a portare frutti, nei cuori della gente. “Non come chi è morto – precisa declinando la parola familiarità – ma come chi è vivo e presente e si fa carico delle nostre necessità quotidiane”.
“Non credo che dobbiamo aspettarci miracoli straordinari, per sancirne la canonizzazione”,
azzarda il suo successore a Brancaccio, che a proposito della capacità di generare persone nuove cita i bambini della prima comunione di quest’anno, che hanno deciso di mettere in scena una piccola fiaba sulla vita di “3P”. È uno di casa, non lo hanno mai visto ma ne hanno sentito parlare dai loro genitori.
Cosa significa, oggi, essere parroco a Brancaccio? “È una grande responsabilità, una fatica”, risponde don Maurizio: “Non si può entrare in competizione con un martire. Il suo modo di dire Messa, di annunciare il Vangelo, di predicare e di ascoltare, di contrastare la mafia è stato una profezia enorme”. Di una cosa, però, il sacerdote è sicuro: i grandi vantaggi di “avere come amico un beato e un martire”, conosciuto negli anni Ottanta per una “lectio” in parrocchia destinata ai giovani, superano di gran lunga gli “svantaggi” di essere continuamente messo a confronto con lui dalla gente. “Era un grande costruttore di relazioni”, racconta a proposito dell’innumerevole schiera di persone che può vantarsi di essere stato suo amico, allievo, figlio spirituale. Tempo fa, ad esempio, don Maurizio ha bussato in Prefettura per quella che oggi è Casa Betania, un edificio confiscato alla mafia rimasto chiuso per undici anni. “Per Padre Pino questo e altro”, gli ha risposto l’impiegata. Sul faldone della pratica, c’era annotato a penna: “Accanto alla parrocchia di padre Pino Puglisi”. Dopo un mese, don Maurizio ha avuto in consegna un bene confiscato alla mafia che dal 2011 è un centro di ritrovo per i giovani.
“Un prete insignificante”. Il parroco di Brancaccio usa questa definizione apparentemente irrispettosa per sintetizzare la normalità straordinaria di “3P”. L’ha presa in prestito da un suo confratello. “È come un calice di vetro trasparente, con del vino rosso versato dentro, dove si riesce a vedere che c’è Cristo. Don Pino era talmente trasparente che non si sono mai accorti di lui, ma solo di Colui che era il suo significato: era ‘insignificante’, perché il significato era Cristo”. Un modello, questo, difficile da incarnare oggi, “dove il carrierismo esiste nella Chiesa, anche tra i preti e i parroci”.
Dall’Uganda al luogo “dove don Pino ha dato la vita per il suo popolo, non solo per Palermo ma per tutto il mondo”.
È la storia di suor Jacinta. Padre Puglisi è morto sorridendo, e lei nel ricordarne la figura cita proprio il suo sorriso, l’umiltà in nome della quale si sottraeva all’abbraccio mortale dei mafiosi perché “non bisogna legare la propria vita con nessuno”, in nome del primato della triade “coscienza-libertà-legge di Dio”. “Non cucinava mai, mangiava scatolette, perché non c’era tempo”, racconta ancora la religiosa, che menziona anche i suoi 6mila libri, letti spesso durante i pasti, e il letto come luogo della preghiera. “Incontrava tutti, ascoltava tutti. Aveva un padre calzolaio, ma quando è morto aveva le scarpe bucate”.
Antonietta Piazza, inquilina storica del palazzo di piazza Anita Garibaldi in cui don Pino era prima cresciuto e poi tornato da parroco di Brancaccio, non se la dimentica più quella sera. Erano le 20.30, era appena iniziata la partita di calcio Milan-Juventus. Il piazzale non era illuminato, mancava la luce ormai da una settimana. Si è affacciata alla finestra quando ha sentito il botto e ha visto qualcosa di bianco – la testa di don Pino – accasciata tra le macchine parcheggiate. “Ma c’era poco sangue, neanche all’ospedale si sono accorti subito del foro che aveva dietro la nuca”. Oggi in piazza Anita Garibaldi non si parcheggia più. C’è la statua di “3P”, davanti all’ingresso della Casa-museo che il 15 settembre accoglierà il Papa che cambierà per sempre la storia di Brancaccio. Per adesso, lo aspettano un gruppo di bambini che giocano sereni a calcetto, quando finisce il pomeriggio, prima di essere chiamati per la cena.