DIOCESI – “Sono grato a tutti voi e a tutti quelli che camminano insieme a noi nella fede di Cristo in questa nostra amata Chiesa diocesana e in modo particolare a tutti quelli che -sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose e laici- operano nella carità perché questa nostra Chiesa possa diventare sempre meglio immagine di quel corpo di Cristo a cui san Paolo la paragona”.
Con queste parole, venerdì 14 settembre, il Vescovo della diocesi di San Benedetto del Tronto, Mons. Carlo Bresciani, ha iniziato il suo discorso per presentare la nuova lettera pastorale presso la Sala Giovanni Paolo II, della Parrocchia Sacro Cuore di Monteprandone.
Il Vescovo Bresciani ha poi affermato: “Vivere la fede è un camminare insieme verso Dio che è nostro Padre, lasciandoci guidare da Cristo nostro pastore. Non possiamo mai separare l’ “io credo”, dal “noi crediamo” e questo “noi” è il noi della Chiesa. Crediamo con la Chiesa, camminiamo con la Chiesa; dalla Chiesa riceviamo la Parola di Dio e il sacramento che ci salvano, per questo amiamo questa nostra Chiesa come amiamo le persone che ci sono care, anche se ne conosciamo bene i limiti e i difetti umani che fanno parte di tutto ciò che è umano e non divino. Non la amiamo perché è perfetta, ma con il nostro amore vogliamo renderla migliore rendendo noi più santi, lasciandoci purificare dalla grazia di Dio.
Dicevo: camminiamo con la Chiesa, per questo siamo qui a incominciare insieme un nuovo tratto del nostro cammino, che non è mai finito finché non saremo giunti a Dio. Come ogni cammino, anche il nostro ha bisogno di sempre nuovi passi e di nuove energie. L’energia ci viene data dall’ascolto della Parola di Dio e la direzione dei passi da quanto ci suggerisce, in nome suo, la Chiesa.
La Parola di Dio ci dice che dobbiamo essere un corpo solo e un’anima sola: questa è la sua volontà di bene per noi. Non lo siamo ancora; lo siamo, ma ancora in modo imperfetto perché appesantiti da quella umanità che in noi lo desidera, ma nello stesso tempo fatica a far spazio all’altro dentro di sé, fatica a superare la distanza che c’è tra l’io e gli altri. È la fatica inevitabile del cammino, fatica che troppo spesso ci trattiene dai passi che portano verso ciò che pur desideriamo. Per questo abbiamo bisogno di quella Parola di Dio che sempre di nuovo ci stimola e ci conforta e, in Cristo, diventa pane che ci sostiene nel cammino.
La Chiesa traccia la direzione dei nostri passi per un avvicinamento progressivo alla meta. Come Chiesa camminiamo nel tempo, dentro la nostra cultura: nel tempo e nella cultura tracciamo il nostro sentiero e qui incontriamo risorse e ostacoli tra i quali dobbiamo camminare con il coraggio e la fiducia del Vangelo, con la pazienza di chi sa affrontare le asperità del cammino e non di rado le difficoltà e la fatica delle relazioni.
Che cosa ci suggerisce la Chiesa
Abbiamo avuto più volte la possibilità di sottolineare come ci troviamo di fronte a un mondo che è cambiato molto più velocemente di quanto non pensassimo. Il nostro cammino di Chiesa non può che essere dentro questo mondo. È avvenuta una specie di terremoto che ha cambiato la conformazione del terreno: i sentieri di prima sono sempre meno percorribili, bisogna tracciarne di nuovi. Come? Quali?
La Chiesa italiana da un po’ di anni va offrendo alcune linee. Nella nota pastorale Il volto missionario di una parrocchia in un mondo che cambia (2004) dice che la strada è quella di una ‘pastorale integrata’ e dà alcune spiegazioni di ciò che questo significa.
«Per mantenere il carattere popolare della Chiesa in Italia, la rete capillare delle parrocchie costituisce una risorsa importante, decisiva per il legame degli italiani con la Chiesa cattolica. Ma ora occorre partire dal radicamento locale per aprirsi a una visione più ampia, che scaturisce dal riconoscere nella Chiesa particolare il contesto teologico proprio della parrocchia. La radice locale è la nostra forza, perché rende la nostra presenza diffusa e rispondente alle diverse situazioni. Ma se diventa chiuso particolarismo, si trasforma nel nostro limite, in quanto impedisce di operare insieme, a scapito della nostra incidenza sociale e culturale. L’attuale organizzazione parrocchiale, che vede spesso piccole e numerose parrocchie disseminate sul territorio, esige un profondo ripensamento. Occorre però evitare un’operazione di pura “ingegneria ecclesiastica”, che rischierebbe di far passare sopra la vita della gente decisioni che non risolverebbero il problema né favorirebbero lo spirito di comunione. È necessario peraltro che gli interventi di revisione non riguardino solo le piccole parrocchie, ma coinvolgano anche quelle più grandi, tutt’altro che esenti dal rischio del ripiegamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che è finito il tempo della parrocchia autosufficiente.
Per rispondere a queste esigenze la riforma dell’organizzazione parrocchiale in molte diocesi segue una logica prevalentemente “integrativa” e non “aggregativa”: se non ci sono ragioni per agire altrimenti, più che sopprimere parrocchie limitrofe accorpandole in una più ampia, si cerca di mettere le parrocchie “in rete” in uno slancio di pastorale d’insieme» (n.11).
Il nostro Sinodo diocesano ha recepito queste indicazioni come il cammino della nostra Chiesa diocesana.
«Per la nostra Chiesa diocesana è tempo di sperimentare le Unità Pastorali. Esse consentono di mettere in rete i doni e le risorse presenti nel territorio e di porre in atto, con maggiore facilità, scelte pastorali urgenti e coraggiose. Esse coinvolgono l’intero Popolo di Dio, richiedendo uno spirito di umiltà e di collaborazione, un progetto specifico e un’adeguata ridistribuzione del presbiterio nel territorio diocesano. Le Parrocchie, in tal modo, superano la categoria dell’autosufficienza, decidono di lavorare insieme sul territorio ed elaborano progetti pastorali comuni e condivisi, offrendo la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta sia dai presbiteri, sia dai fedeli. Le unità pastorali rispondano non solo alle mutate condizioni sociali e culturali, ma ancor più ad una autentica ecclesiologia di comunione, che integri la pastorale ordinaria della Parrocchia. L’individuazione concreta della loro realizzazione deve tener presente la sensibilità dei presbiteri e delle comunità, le affinità sociali, i comprensori scolastici, gli esperimenti già in atto. Comunque, si devono ipotizzare progetti di Vicaria, almeno per alcuni ambiti di pastorale, facendo riferimento agli Uffici di Curia corrispondenti” (n. 9).
Siamo chiamati ad abitare noi stessi, il nostro tempo e con gli altri.
In questi anni abbiamo incominciato a camminare sulla strada di abitare il nostro tempo e con gli altri, sollecitando le parrocchie ad un sempre maggior coinvolgimento responsabile dei laici nei vari consigli parrocchiali; abbiamo indicato la necessità di incominciare collaborazioni pastorali, possibilmente a livello di vicarie, per quanto riguarda i giovani, la famiglia e la carità. Si è trattato dei primi passi, ma significativi e molto importanti, verso la realizzazione di quelle indicazioni che non possono che essere per noi normative. Abbiamo incontrato anche le prime difficoltà come era prevedibile. Ma questo non deve scoraggiarci.
Ogni volta che si traccia un cammino ci si trova di fronte a tratti pianeggianti e a sentieri in parte già tracciati (è la parte più facile), ma anche a valli, fiumi o burroni che chiedono di essere valicati (ed è la parte più difficile e che richiede più impegno e più fatica). È qui che nasce la tentazione di abbandonare il cammino, magari con amarezza e delusione per un desiderio non realizzato. Ma una soluzione c’è anche in questi casi e l’uomo ha imparato a metterla in pratica: si tratta della costruzione di ponti che uniscono ciò che sembrava diverso, diviso, separato, insuperabile. La nostra civiltà senza ponti (non solo quelli materiali) sarebbe perduta. Sono i ponti che l’hanno fatta progredire permettendo comunicazioni, scambi e sviluppo. Accanirsi ad eliminare fiumi e valli non serve a nulla. Non si possono eliminare i fiumi e le valli? Costruiamo ponti sicuri: ci vuole un po’ di tempo, ma poi il cammino diventa più veloce ed è possibile lo scambio.
La pastorale integrata di cui abbiamo parlato è una meta: sul suo cammino incontriamo inevitabilmente fiumi, valli, burroni: sono insormontabili se pretendiamo di abolirli (illusorio abolire la diversità), abbiamo bisogno invece di imparare a costruire ponti tra le diverse realtà ecclesiali.
Cosa significa fuori metafora?
Mettere insieme le diversità
Significa che abbiamo bisogno di imparare a mettere insieme le diversità, ad affrontare le difficoltà nelle relazioni e le barriere che in qualche maniera si sono costruite tra di noi e che ostacolano il cammino di Chiesa che siamo chiamati a fare. L’individualismo è uno dei mali maggiori della nostra cultura e della Chiesa stessa. “La peggiore schiavitù è quella del proprio ego” ha detto giustamente papa Francesco.
L’individualismo è un modo sbagliato non solo di abitare con gli altri, ma anche di abitare se stessi. L’esasperazione dell’individualismo in cui viviamo ha portato a rompere il rapporto armonico tra l’io e il proprio corpo, con il tu del proprio corpo che è il primo e fondamentale rapporto che noi siamo chiamati ad abitare.
Esso ha portato alla rottura del ponte tra l’io e il corpo, tra l’io e il tu, tra l’io e il noi. Dice A. Prete: “Lungo il sentiero della conoscenza di sé, c’è una luce che illumina i passi: il riverbero dell’altro. Non c’è edificazione e cura dell’interiorità senza l’accoglimento dell’altro. E l’altro … ha il volto del tu, che è principio del riconoscimento di sé”.[1] E Martin Buber, a sua volta: “Divento io dicendo tu”; “L’uomo si fa Io nel Tu”.[2] Tutto questo è vero, ma solo se c’è qualcosa che unisce l’io e il tu, se c’è alleanza, cioè se c’è un ‘noi’ che lega l’io e il tu ed è questo noi che sta alla base della relazione e la fonda. Un bene che è comune.
L’individualismo mette in crisi tutte le relazioni sociali, civili, matrimoniali, ecclesiali. Tutti ne soffriamo: desideriamo la comunità, ma l’individualismo ci chiude su noi stessi, costruisce barriere invalicabili e ci lascia tutti malcontenti e insoddisfatti e mai senza ferite anche profonde. L’individualismo non è la soluzione! Occorre imparare a passare dall’“io-tu”, che sottolinea l’inevitabile diversità tra l’io e il tu, al “noi” e per far questo occorre costruire solidi ponti tra l’io e il tu, così che si possa arrivare a dire “noi”. Se ci fermiamo all’io-tu saremo sempre di fronte alla diversità insuperabile e, quindi, al conflitto dell “o io o tu”. Il ‘noi’ mette invece al centro ciò che unisce nella diversità. L’io-tu soltanto non fa il matrimonio (il coniugio). È il ponte che unisce l’io al tu che ci permette di dire “noi”, ed è verso il “noi” che la fede vuole portarci, insegnandoci a dire Padre “nostro” e non Padre “mio”. Non Chiesa mia, Chiesa tua, ma Chiesa nostra: questo è il bene comune. Non possiamo non amarlo e farlo crescere. Comune: significa che tutti ne traiamo vantaggio spirituale.
Non si tratta di eliminare la diversità tra l’io e il tu, come tende a fare la teoria del gender eliminando la diversità maschio-femmina, ma di lavorare su ciò che può unire l’io al tu: questo è essere pazienti costruttori di ponti e ciò ricade a beneficio di tutti: dell’io, del tu, della società, della famiglia e della Chiesa.
Costruire ponti: è ciò che ha fatto Gesù, e per questo ha pagato anche un caro prezzo. Ha ricostruito un vero ponte tra Dio e l’uomo, un ponte che ha scavalcato le diversità di razza e di nazione (non c’è più Giudeo né Greco: Gal 2, 28); un ponte su cui anche i peccatori, i pubblicani e le prostitute potessero passare per ritrovare la strada verso Dio.
Costruire ponti è ciò che ha fatto il cristianesimo con la predicazione del Vangelo a partire dagli apostoli che da Gerusalemme si sono sparsi in tutto il mondo: Egitto, Babilonia, India, Roma, ecc.
È quello che ha fatto san Paolo, passando in Macedonia e aprendo la strada al cristianesimo in Europa; è quello che hanno fatto i vari missionari che con la predicazione del Vangelo hanno unito l’Europa e il mondo. Potremmo continuare, ma costruire ponti tra persone, comunità e nazioni è stato sempre opera strettamente collegata con l’annuncio del Vangelo: “fare dei due una cosa sola”. La divisione è opera del peccato, l’unità è opera dello Spirito di Dio che ha guidato Gesù in tutta la sua vita.
Quali i punti forza di questa impegnativa opera? Mi paiono almeno due le pietre portanti: riconoscere e accettare concretamente la dignità di figli di Dio di ogni essere umano pur nella sua diversità (altrimenti: perché portare il Vangelo a chi non è figlio di Dio?), e l’imparare da Dio ad venirsi incontro l’uno con l’altro, senza farsi fermare da quelle ferite che rompono l’unità del ‘noi’. Il risentimento, l’astio, la vendetta, il rancore approfondiscono solo la divisione e creano ulteriori ferite. Il peccato della divisione non è solo fuori della Chiesa, ma continua a minacciare la Chiesa stessa nella misura in cui l’egocentrismo e l’individualismo non sono ancora superati. C’è egocentrismo e individualismo clericale sia tra fedeli che tra presbiteri, talora più nei fedeli che nel presbitero e ciò mortifica e sterilizza la forza del Vangelo di cui siamo portatori.
Verso le unità pastorali
Come abbiamo detto, seguendo le linee pastorali della Chiesa italiana e del nostro Sinodo diocesano, stiamo camminando verso la costituzione delle unità pastorali anche nella nostra Diocesi. Esse richiedono una pastorale integrata tra le parrocchie, tra parrocchia e associazioni-movimenti-gruppi, tra parrocchie e diocesi. Ma se ciò non vuole rimanere un desiderio scritto sulla carta, è necessario imparare a costruire ponti -relazioni, collaborazioni, progetti pastorali comuni e condivisi- tra le diverse realtà ecclesiali e tra le persone e gruppi che le compongono.
Così scrivevo parlando ai sacerdoti:
“Una condizione indispensabile perché le Unità Pastorali possano funzionare è la capacità di relazione e collaborazione sia dei presbiteri tra di loro e con i laici, sia dei laici nei consigli pastorali parrocchiali. Su questo dovrà incentrarsi il cammino formativo dell’anno prossimo sia nelle giornate per il clero, sia in quelli che abbiamo chiamato ‘esercizi di sinodalità’ per i consigli parrocchiali…; ci è chiesto un nuovo modo di fare parrocchia e quindi di fare pastorale: una parrocchia non più chiusa su se stessa, ma capace di mettersi in rete con altre parrocchie; ci è chiesta una nuova visione della Chiesa locale e delle relazioni tra parrocchie e Chiesa locale”.
Dobbiamo riconoscere che come non è facile costruire ponti, così non è facile restare in relazioni costruttive, fatte di dare e ricevere, anche all’interno delle nostre istituzioni ecclesiali: la nostra identità è innanzitutto quella di essere Chiesa, prima di tutte le altre affermazioni identitarie. È più facile interrompere un ponte che costruirlo, ma quando lo si interrompe non cessa solo la possibilità di comunicazione, si rompe qualcosa all’interno della persona stessa o della comunità: siamo esseri relazionali e l’interruzione della relazione, soprattutto se significativa, non lascia indifferenti, fa stare male, anche quando non porta alla guerra, porta a una lotta interiore dagli esiti non sempre facili da dominare. Siamo fatti per la sponsalità, secondo lo spirito e non solo secondo la carne. Senza sponsalità l’essere umano resta squilibrato spiritualmente oltre che psicologicamente.
Ecco perché quest’anno mettiamo a tema l’imparare ad essere costruttori di ponti insieme con Gesù alla scuola dell’apostolo Paolo, rileggendo insieme la lettera ai Filippesi e applicandola alla nostra realtà.
La lettera pastorale, Con Cristo, costruttori di ponti (sia ben chiaro che era pronta prima delle varie cadute di ponti in Italia!), offre alcuni suggerimenti per la rilettura della lettera ai Filippesi e per la sua attuazione nella nostra realtà ecclesiale.
Paolo parla ai Filippesi, ma parla anche a noi perché la sua, in quanto parola ispirata dallo Spirito, è Parola di Dio a noi, a ciascuno di noi in modo singolare. Quindi richiede innanzitutto una meditazione personale: chiedersi cioè che cosa essa dice e chiede a ciascuno di noi personalmente. Cosa chiede a me dentro il noi del matrimonio, della famiglia, della parrocchia, della diocesi, della Chiesa, più che non che cosa chiede agli altri. In un romanzo di un autore contemporaneo, uno dei protagonisti che riflette sul fallimento del proprio matrimonio afferma: “Ho capito che avremmo potuto facilmente impedire tutto ciò che è avvenuto, ma nessuno di noi due ha preso la decisione di fermare la macchina folle. Nessuno di noi due ci ha pensato. Spesso avviene così in situazioni in cui nessuno è davvero innocente”.[3]
Le mani sono mosse dal cervello, in caso contrario lavorano a vuoto. Prima di pensare a cosa bisogna fare è necessario chiedersi: come mi penso io dentro questa Chiesa, questa Diocesi, questa parrocchia, questa vicaria? In caso contrario si rischia di pensare che tocca agli altri, che si tratti solo di fare qualcosa di nuovo o di più (da aggiungere a quello che già si fa ed è molto).
Come ogni conversione, anche quella pastorale parte da se stessi, dalla conversione del proprio cuore senza aspettare la conversione del cuore altrui. Quindi, tocca a me diventare costruttore di ponti, non aspettare che siano gli altri a costruire ponti su cui poi forse posso passare anch’io per incontrarli. Spetta a me non limitarmi alla lamentazione, perché il ponte non c’è o non è perfetto o è caduto, ma impegnarmi a costruirlo o a renderlo più forte e resistente.
Non basta dire, ‘ognuno va per conto suo, quindi anch’io’; chiediti ‘come io posso andare insieme con gli altri magari rallentando o accelerando un po’ il cammino?’. Non dire ‘spetta al marito, spetta alla moglie, spetta alla Chiesa, spetta al parroco, spetta alle associazioni…’, ma chiediti ‘Io che cosa posso fare (poco o tanto non importa) perché le relazioni tra noi migliorino?’. In questo senso tutti possiamo fare molto (a volte basta molto poco, basta fare il primo passo) e non ci mancano mattoni sicuri per costruire ponti solidi. La pietra che regge tutte le arcate ce l’abbiamo ed è Gesù.
Possiamo allora capire che cosa sono le unità pastorali verso le quali ci è chiesto di andare: significa passare da parrocchie che sono isole, a parrocchie legate da ponti; da movimenti e associazioni che sono isole a costruire ponti che le leghino tra loro, con la parrocchia e con la diocesi. Solo se legate da ponti tra di loro sono veramente Chiesa e manifestano tutta la loro bellezza e ricchezza. Non si tratta di abolire, ma di unire, come dice la parola “unità pastorali”.
Come agisce Paolo
L’azione di Paolo che emerge dalla lettera ai Filippesi:
- a) unisce a Gesù
- b) unisce la comunità divisa da tante cose
- c) unisce la comunità di Filippi alle altre comunità cristiane,
- d) aveva altri progetti, ma Gesù gli dice di passare in Macedonia: stabilisce un ponte tra l’Asia e l’Europa.
- e) unisce le sue comunità alla Chiesa di Gerusalemme dove sono gli apostoli.
Facendo questo stigmatizza tutto ciò che ostacola il cammino verso una sempre maggiore unità e chiede una conversione personale e comunitaria.
Cosa muove Paolo? L’amore per Gesù (“non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”[Gal 2, 20]; “per me il vivere è Cristo” [Fil 2, 21]) e l’amore per il suo corpo che è la Chiesa.
Da dove partiamo?
Lo abbiamo già detto, ma lo metto meglio in evidenza: dalle relazioni (costruire ponti relazionali). La lettera pastorale che ho scritto offre alcune indicazioni di base e suggerisce anche quali debbono essere le pietre che non possono mancare per la sua solidità (stima reciproca, carità, corretta e giusta comunicazione, perdono, …). Si tratta di pietre che tutti abbiamo, dobbiamo solo avere il coraggio di usarle, mettendoci in gioco e rischiando la relazione, anzi, donando la relazione.
Ma è importante soprattutto la conversione della memoria. La memoria è una grande e indispensabile risorsa umana, ma essa può diventare un ostacolo, invece che una risorsa.
Memoria come risorsa: se perdiamo la memoria non sappiamo più chi siamo e da dove veniamo: perdiamo la nostra identità e cadiamo nell’Alzheimer spirituale. Il malato di Alzheimer non sa più stare in relazione, vive nel suo mondo impenetrabile anche per quelli che gli vogliono bene.
Il popolo di Israele di fronte alle difficoltà faceva memoria del suo passato e delle opere di Dio. La memoria lo riscattava dalla depressione e dallo scoraggiamento proveniente dalle difficoltà e faceva ritrovare la speranza. Basta leggere i Salmi.
Il cristiano è colui che fa memoria: quando celebriamo facciamo memoria di un Dio che ci salva e agisce nella nostra storia. Se non crediamo e non viviamo questo, le nostre celebrazioni sono povere spiritualmente. Questa è la fonte della nostra speranza.
La memoria permette il perdurare della relazione, di farla durare nel tempo, di non doverla ricominciare sempre da capo. Potremmo dire che è uno dei tiranti fondamentali che regge il ponte delle relazioni. Se si rompe il tirante, l’arcata cade.
La nostra liturgia, la nostra Chiesa, le nostre parrocchie custodiscono una memoria che le fa essere ciò che sono. Queste memoria è ricca di ricordi, ma anche di ciò che si è sedimentato e costruito nel tempo. È certamente la nostra ricchezza.
Memoria come ostacolo: essa può diventare ostacolo alle relazioni nella Chiesa, nelle parrocchie, nelle famiglie, tra le persone. Quando? In due modi principalmente:
- Quando ci costringe a ripetere perché ci lega solo al passato. Allora fa morire la storia. Ogni realtà vive dentro la storia e anche noi come persone e come comunità. La storia si ferma solo con la morte. È una memoria che rifiuta ogni cambiamento, ogni novità … rifiuta la vita.
Ogni matrimonio ha una storia che non è la semplice ripetizione del fidanzamento o della luna di miele. Se la memoria del passato non diventa la fiducia e la speranza per l’investimento sul futuro, si vive solo di nostalgia e non si fa nascere il nuovo che dà spazio alla vita. Si tratta, per esempio, dei genitori che non sanno riconoscere che i figli diventano adulti, quindi che devono ritirasi e lasciare spazio alla loro maturità. O degli adulti che non accettano di essere diventati tali e continuano a fare i bambini (e diventano ridicoli!).
Anche la memoria delle nostre parrocchie può portarci a vivere di nostalgia, senza la capacità di gettare ponti verso il futuro. Era quello che capitava alla comunità di Gerusalemme e agli stessi apostoli che facevano fatica ad aprirsi al futuro che Gesù aveva indicato loro. Non sono mancate tensioni anche tra di loro per questo: c’è stata la fatica a capire Pietro che è entrato nella casa di Cornelio (At 10), la fatica capire alcuni modi di Paolo di rapportarsi con i pagani e i ponti che gettava verso di loro, ecc. Pur con tutta la loro buona volontà, la memoria non pienamente risanata li legava al passato antico testamentario e rendeva difficile per loro capire dove Gesù indicava loro cammino nuovo. Se non l’avessero capito, la Chiesa sarebbe diventata una setta.
- Un secondo modo secondo il quale la memoria diventa un ostacolo è quando diventa selettiva e restringe il suo angolo di visuale. È una specie di malattia della memoria: in genere capita quando siamo colpiti, feriti o privati di qualcosa: presi dalla reazione emotiva al cambiamento presente dimentichiamo tutto e il presente (che è poi solo un segmento della nostra vita), diventa il tutto. Il criterio di giudizio diventa unico, tutto viene semplificato e si giudica tutto da una prospettiva parziale. Il dispiacere, il dolore, il lasciare qualcosa diventa preponderante e ci fa dimenticare tutto il resto. Capita, per esempio, di fronte a un litigio o a una divergenza (cose sempre possibili nelle relazioni), capita tra genitori e figli o tra coniugi per esempio: concentrandosi su un aspetto soltanto, si butta all’aria anche la relazione con i genitori e si dimentica tutto ciò che da essi si è ricevuto nella vita.
Può diventare una memoria talmente malata da portare a rileggere la storia precedente della relazione sotto quella lente ristretta senza accorgersi che in tal modo si distrugge tutto quello che di positivo c’è e si è costruito. Si pensa forse di essere diventati razionali, ma si è guidati dal massimo di irrazionalità, non necessariamente perché i fatti non sono veri, ma perché li si prende come se fossero il tutto e non lo sono affatto. I risultati talora sono drammatici non solo per la relazione, ma per lo squilibrio che porta nella vita della persona stessa.
I sentimenti sono importanti nelle relazioni certamente, ma bisogna chiederci anche quali sono i sentimenti che dobbiamo coltivare per costruire relazioni sane tra di noi. Per questo Paolo, scrivendo ai Filippesi dice: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù: Egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Fil 2, 5-7). A volte ci lasciamo guidare troppo dai sentimenti momentanei, o dai nostri sentimenti feriti o dai piccoli interessi del momento e il risultato è che perdiamo la memoria e distruggiamo le relazioni più importanti della nostra vita, pagando poi un prezzo molto alto. Ciò dice che anche i sentimenti vanno coltivati. Non sempre sentiamo quei sentimenti che vorremo sentire, ma non dobbiamo lasciarci dominare da essi.
Paolo scrivendo ai Filippesi, da una parte, ricorda i sentimenti che dobbiamo coltivare, dall’altra, quelli che dobbiamo combattere: “non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma quello degli altri” (2, 3-4). Solo così possiamo essere Chiesa e ciò vale per i singoli, per le parrocchie, per i movimenti, per le associazioni e per la famiglia.
Paolo ci indica anche la strada per risanare una memoria malata: rimeditare i sentimenti e gli atteggiamenti di Gesù e farli propri. Ecco perché è fondamentale la meditazione della Parola di Dio, per diventare imitatori di Gesù: e questo è semplicemente essere cristiani. Dobbiamo sempre ripartire da lì, per essere imitatori di Gesù, come Paolo.
Solo così la memoria può diventare risorsa per spingerci verso il futuro, gettando ponti nuovi. Se vogliamo camminare verso le unità pastorali, come ci chiede la Chiesa e l’annuncio del vangelo, anche noi dobbiamo coltivare gli stessi sentimenti di Cristo; non essere solo coloro che parlano di Gesù, ma lo imitano nei sentimenti e negli atteggiamenti. Per questo nella lettera pastorale ne indico qualcuno, indicandolo come pietra necessaria per la costruzione delle relazioni.
Non dobbiamo pensare le unità pastorali innanzitutto come strutture o come progetti particolari (lo saranno anche), ma come modo di vivere insieme, come Chiesa appunto, come modo di vivere la nostra fede, come modo nostro di essere presenti in questo mondo e portare il vangelo con la nostra vita.
Chiamati alla santità
Tutti siamo chiamati alla santità in Cristo! Il santo è colui che ha fatto veramente memoria delle opere di Dio in lui, ha coltivato i sentimenti di Cristo, anche di fronte alle sfide e alle difficoltà della vita. Ciò ha permesso a lui di affrontare la complessità delle relazioni costruendo comunità.
È colui che elimina in sé innanzitutto i mattoni marci che distruggono nella sua interiorità i ponti verso gli altri (p. 23), e prepara mattoni solidi che sono le virtù relazionali che vanno esercitate con tanta pazienza.
Ogni relazione comporta anche dei pesi, inevitabili, che introducono la tentazione dello scoraggiamento, di abbandonare tutto e chiuderci in noi stessi per troppo lentezza, per stanchezza, per l’impressione che non si ottengano risultati, per incomprensioni e fraintendimenti, per false dicerie o per pretese che non possono essere soddisfatte… San Paolo dice che sono la “spazzatura” che bisogna lasciare. In caso contrario si finisce per essere o dei fanatici o dei cinici (nella lettera mi diffondo un po’ a descrivere questi atteggiamenti distruttivi che non mancano neppure nella Chiesa): si tratta di persone insoddisfatte con se stesse prima ancora che con gli altri.
Le unità pastorali non sono altro che ponti che legano tra loro in unità di sentimenti, di atteggiamenti e di azione pastorale le parrocchie più vicine, le parrocchie alla diocesi, i movimenti, le associazioni e i gruppi alle parrocchie in cui sono e alla diocesi. Il cammino della Chiesa non può che essere dalla frammentazione all’unità. È, questo, un cammino di santità.
Quale il cammino pastorale di quest’anno
Tutto parte dal ravvivare sempre di nuovo il nostro rapporto con Dio: il nostro incontro con Dio attraverso Gesù Cristo e la Chiesa resta sempre il punto di partenza. Camminiamo verso Dio percorrendo la strada che Gesù ci indica attraverso la Chiesa. Da qui la lettura e la meditazione della lettera ai Filippesi. Perché? Perché ci indica, tra le tante cose, come costruire e restare dentro le relazioni, restando lieti anche nelle difficoltà che esse presentano.
La relazione con Dio è tanto più vera quanto più siamo capaci di relazioni fraterne tra di noi e viceversa. Paolo ne è un esempio.
Dice papa Francesco, cui va il nostro pieno affetto anche di fronte alle assurde accuse di cui è stato fatto oggetto nei giorni scorsi: “il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza “ (n. 88).
Il papa parla di rischio della relazione, perché bisogna mettersi in gioco. San Paolo ci mostra come restare in relazione, nonostante le incomprensioni e addirittura la prigione.
A livello individuale: coltivare relazioni costruttive a partire dalla famiglia e nei rapporti che abbiamo individualmente con le persone, togliendo i mattoni marci e sostituendoli con quelli solidi.
A livello parrocchiale: impegnarsi a costruire ponti tra associazioni, movimenti e gruppi per essere sempre di più una comunità integrata.
A livello inter-parrocchiale: incentivare le relazioni pastorali e incominciare a pensare, insieme con i consigli pastorali (non necessariamente vicaria, ma di due o tre parrocchie vicine), alcuni progetti comuni da portare avanti sia insieme sia nelle singole parrocchie. Insisto sui giovani, la famiglia e la carità, ma eventualmente anche in altri ambiti pastorali, progetti da portare avanti anche negli anni successivi e cercando di coinvolgere tutte le realtà ecclesiali presenti sul territorio.
Non intendo imporre nulla, ma sollecito che si incominci a camminare su questa strada. Quest’anno riflettendo sulle relazioni cercheremo di tracciare la strada verso le unità pastorali. Mi piacerebbe che dall’anno prossimo incominciassero a prendere forma.
Forbici o ago?
Una piccola storia.
Un re, un giorno, rese visita al grande mistico sufi Farid. Si inchinò davanti a lui e gli offrì in dono un paio di forbici di rara bellezza, tempestate di diamanti.
Farid prese le forbici tra le mani, le ammirò e le restituì al visitatore dicendo: “Grazie, Sire, per questo dono prezioso: l’oggetto è magnifico, ma io non ne faccio uso. Mi dia piuttosto un ago”.
“Non capisco”, disse il re,. “Se voi avete bisogno di un ago, vi saranno utili anche le forbici”.
“No”, spiegò Farid, “le forbici tagliano e separano. Io non voglio servirmene. Un ago, al contrario, cuce e unisce ciò che era diviso. Il mio insegnamento è fondato sull’amore, l’unione, la comunione. Mi occorre un ago per restaurare l’unità e non le forbici per tagliare e dividere”.
(J. Venette, Parabole d’Oriente e d’Occidente. Fiori di sapienza per scoprire il regno interiore, ed. Droguet et Ardant)
A tutti noi Dio ha dato un ago in mano: come vogliamo usarlo?”
[1] A. PRETE, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 12.
[2] M. BUBER, Il principio dialogico, Edizioni Comunità, Milano 1959, p. 30.
[3] PH. BESSON, La maison atlentique, Julliard, Paris 2014, p. 112.
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