“Un don Bosco dei nostri tempi”. Così Francesco Deliziosi, caporedattore del “Giornale di Sicilia” e autore del libro “Se ognuno fa qualcosa può fare molto”, edito dalla Bur Rizzoli e presentato il 18 settembre a Roma, nella Sala del Tempio di Adriano a piazza di Pietra, ha definito padre Pino Puglisi, che ha conosciuto personalmente prima come suo insegnante di religione al liceo Vittorio Emanuele II di Palermo e poi nei tre anni da volontario, insieme a sua moglie Maria, nel Centro Padre Nostro di Brancaccio.
“Non era un prete antimafia”
come “altri sacerdoti che erano scortati e andavano in tv”, ha detto Deliziosi durante l’incontro promosso dalla Regione Lazio a 25 anni dal martirio di don Puglisi e all’indomani della visita del Papa a Palermo: “Faceva l’antimafia dei fatti, anzitutto come educatore”. È così, infatti, che “3P” è diventato “un prete rompiscatole”, come lo ha definito il card. Romeo nel giorno della sua beatificazione.
“Il mio frigo può essere vuoto, ma il serbatoio della mia macchina deve essere sempre pieno”, diceva don Pino. “Era sempre pronto ad ascoltare noi ragazzi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e per questo era un ritardatario cronico”, ha raccontato Deliziosi: “È riuscito perfino a salvare una ragazza che era sull’orlo del suicidio, con la sua tenerezza l’ha tirata fuori dagli abissi della depressione”.
Don Pino Puglisi “non può e non deve essere ridotto ad una cornice agiografica: faremmo del male a lui, al mondo e alla Chiesa”. A mettere in guardia dal rischio che la figura di padre Puglisi divenga “un santino” è stato mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, che nella serata romana ha “restituito” il clima del viaggio del Papa appena concluso. Francesco, ha fatto notare il presule, nei suoi viaggi apostolici “sta consegnando un disegno alla Chiesa italiana e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: don Mazzolari, don Milani, don Zeno, don Tonino Bello, padre Puglisi sono tappe di un itinerario di preti che hanno fatto sul serio: molto diversi per provenienza, collocazione, storie di vita, hanno avuto però tutti un’adesione libera, consapevole, appassionata al Vangelo. Uomini che hanno scelto di essere discepoli di Cristo, non per convenienza o per carriera”. “Un prete non può avere un modello preconfezionato, neanche nella stessa diocesi”, ha fatto notare Lorefice, definendo quella di don Pino “una santità del pianerottolo”: “Non era un prete antimafia, nessuno lo conosceva. Il suo stile fa essere la comunità cristiana alternativa: presente nel territorio, ma di una presenza libera e liberante”.
“Un clima di oppressione”. Così Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma dal 2012 e a Palermo dal 1970 al 1993, ha descritto l’atmosfera che si viveva nel capoluogo siciliano negli anni in cui c’erano più di mille morti per mano della mafia: “I nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ne richiamano centinaia di altri”. “Erano anni di una violenza incombente e senza limite, percepibili anche dai ragazzi di Brancaccio”, ha testimoniato Pignatone: “Di questo rischio tanti erano consapevoli, persone comuni e persone più esposte per il lavoro che facevano”, come Falcone e Borsellino, Piersanti Mattarella, Pio La Torre. “Don Pino Puglisi sapeva del rischio che correva, ma si preoccupava piuttosto di non esporre al pericolo i suoi amici”, ha fatto notare il procuratore. “Lo Stato italiano ha sconfitto quella mafia che aveva preteso di sfidare lo Stato dall’alto della superiorità, e lo ha fatto nel rispetto dei Codici”, ha affermato Pignatone: “L’omicidio di padre Puglisi è stato l’ultimo dei delitti eccellenti in Sicilia, dopo le stragi del 1992 e gli attentati del 1993, a Roma, a San Giovanni in Laterano e a S. Giorgio al Velabro. Voleva essere un’intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta alle parole pronunciate da Giovanni Paolo II nel 1993, dalla valle dei templi di Agrigento”. “Con la lucidità delle sue parole e dei suoi gesti – ha concluso il Procuratore di Roma – padre Puglisi ha aiutato i ragazzi di Brancaccio a capire il senso della propria identità e ha combattuto una battaglia contro la cultura dell’illegalità. ‘Ciò che è un diritto non si deve chiedere come se fosse un favore’, diceva. Era una spina nel fianco della mafia”.
“Se ognuno fa qualcosa si può fare molto”. “La mafia è anche una potenza oscura, ma non è invincibile”, la tesi del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: “La grande questione di una società responsabile è non nascondersi dietro la narrazione di un’indiscussa forza della mafia, ma prendere coscienza della sua vulnerabiltà e assumere su di sé l’impegno a contrastarla, ciascuno per la propria parte, come ha fatto padre Puglisi”. Il primo tassello della lotta alla mafia deve essere l’assunzione di responsabilità e la coerenza, senza deleghe. Per questo è centrale il tema dell’educazione.
Al termine dell’incontro, i ragazzi della scuola di calcio di Montespaccato hanno regalato ai relatori una maglietta simbolo del loro riscatto: grazie, infatti, ad un’operazione della Procura della Repubblica di Roma, la squadra è stata sequestrata al boss Gambacurta, accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ora la gestione della squadra e di tutta la scuola calcio, con 600 ragazzi, è della Regione Lazio e dell’Ipab.
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