Il dramma del Venezuela fa sentire, ogni giorno di più, i suoi effetti su tutto il continente. Prima erano migliaia, ora sono milioni coloro che fuggono dalla fame, dall’indigenza, dalla violenza e da un regime sordo. All’inizio il flusso era concentrato quasi in un solo punto: il ponte che divide il Venezuela dalla città di Cucuta, in Colombia. I venezuelani passavano la frontiera, si procuravano qualche genere di prima necessità, e tornavano alle loro case. Poi hanno iniziato a restare in Colombia (attualmente sono circa un milione e 200mila, secondo recenti stime), o a intraprendere un lungo viaggio per arrivare in Cile. Ma ora anche gli Stati di passaggio, Ecuador e Perù, sono al collasso. La gente si ammassa alle frontiere, e spesso si ferma. Quella andina è la rotta principale, ma non l’unica. L’altra principale, anche se con numeri inferiori, è quella che porta in Brasile, inizialmente nello stato settentrionale del Roraima. Ma non mancano neppure coloro che cercano di raggiungere le isole caraibiche, oppure gli Usa o l’Europa.
Accordo sui passaporti. L’emigrazione venezuelana ha iniziato, a partire da quest’estate, ad assumere contorni impressionanti: i numeri ufficiali parlano di 2,3 milioni di cittadini usciti dal loro Paese, ma alcune stime arrivano a superare i tre milioni. Molti sono entrati in modo irregolare nei vari Paesi, anche perché diversi Governi, fino all’inizio di settembre, avevano iniziato a pretendere, per consentire l’ingresso ai venezuelani, il passaporto con regolare validità, mentre molti documenti risultavano scaduti. A questo si aggiungono l’invio dell’esercito alla frontiera brasiliana, mentre anche la Colombia, con il nuovo presidente Duque, aveva minacciato di farlo. Poi, i rappresentanti di 11 Paesi (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Messico, Panama, Paraguay, Perù e Uruguay), riuniti a Quito, hanno accettato di consentire l’ingresso dei profughi venezuelani anche con il passaporto scaduto.
La situazione resta comunque di massima emergenza. E non mancano episodi, perlopiù isolati, di chiusura e xenofobia. Come emerge da una “panoramica” che il Sir ha compiuto in alcuni di questi Paesi.
In centinaia di migliaia nei Paesi andini. Spiega dall’Ecuador Fernando López, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati (Sjr): “Alcune stime parlano di 430mila venezuelani entrati dalla Colombia negli ultimi mesi. Fino allo scorso luglio l’Ecuador era solo un Paese di transito”. Prosegue il direttore del Sjr: “L’Ecuador è tradizionalmente un Paese accogliente e solidale, ma il volume delle persone giunte ha messo a dura prova tutto il sistema. Le condizioni di parecchi venezuelani sono molto precarie”. Non sono mancati episodi di xenofobia a Rumichaca e a Quito, “ma si è trattato di casi isolati”. Il problema, ora, è quello di “organizzare un’accoglienza dignitosa, mentre già sono attive organizzazioni criminali che approfittano della situazione per sottopagare i venezuelani”. La Chiesa è già all’opera da mesi: “Abbiamo iniziato a rafforzare la nostra rete tra ordini e congregazioni religiose. Questo lavoro ci ha permesso di affrontare in questi mesi l’emergenza umanitaria”.
Non molto dissimile la situazione in Perù. Ne parliamo con suor Beatriz Pérez Marcassi, responsabile per il Perù del Simn (Scalabrini International Migration Network), e padre Luiz Do Artes, direttore della casa Beato Juan Bautista Scalabrini a San Miguel, nella zona di Lima. Spiega la religiosa scalabriniana: “Stiamo cercando di fare tutto il possibile, ma la verità è che per il Perù questo è un fenomeno nuovo”. Continua padre Do Arte: “Da agosto si è creata una situazione di emergenza alle frontiere. A Nord, nella regione di Tumbes, la autorità avevano iniziato a chiedere il passaporto, ma gli arrivi sono continuati”. Raccontano i religiosi scalabriniani: “L’80% dei venezuelani ora si trova a Lima, non tanto alla frontiera. Il 70% vive di economia informale. A prevalere sono i segnali di integrazione e accoglienza”. La sfida ora si chiama integrazione:
“Lo Stato ha consentito ai bambini e ragazzi venezuelani l’accesso alle scuole”.
Ci spostiamo in Cile, che è invece un Paese più “abituato” ad accogliere migranti negli ultimi anni, come ci conferma Delio Cubides, portavoce dell’Incami (Istituto cattolico cileno per le migrazioni): “La migrazione venezuelana supera le 140mila persone, sono dati ufficiali ministeriali. Molti anche gli haitiani. Sappiamo bene che i venezuelani sono privi di alimenti e medicine. In Cile c’è una stabilità economica ed è una destinazione appetita. I venezuelani hanno vissuto parecchie difficoltà, per esempio con i passaporti e l’impossibilità di porre il timbro nel documento. Questo si incrocia con un Paese rigido come il Cile, qui si sta discutendo una nuova legge sulla migrazione”. Importante, come negli altri Paesi, l’azione della Chiesa: “Stiamo assistendo le persone nei documenti da presentare, considerando che in Cile la parte burocratica è più rigida che in altri Paesi. Se non si è a posto con i documenti, non si può accedere al mercato lavorativo. Poi esistono diverse case di accoglienza, gestite perlopiù dai padri Scalabriniani. Ci sono due case di accoglienza a Santiago e un’altra ad Arica, vicino alla frontiera settentrionale. Come Incami assistiamo ogni giorno, solo a Santiago, 150 persone nuove”.
Brasile: xenofobia e strumentalizzazioni. Lo scenario muta notevolmente in Brasile e in particolare nello stato di Roraima. Qui nelle scorse settimana ci sono stati gravi episodi di intolleranza e xenofobia, diversi venezuelani sono tornati nel loro Paese. Inoltre il Governo del presidente Temer ha inviato l’esercito a presidiare la frontiera. Denuncia suor Rosita Milesi, direttrice della Congregazione scalabriniana in Brasile e dell’Istituto migrazioni e diritti umani: “Gli episodi di xenofobia sono diventati ricorrenti nello stato di Roraima. In larga misura,
queste manifestazioni discriminatorie sono state irresponsabilmente provocate dai leader locali, compresi i leader politici,
per i quali la xenofobia può rappresentare un modo per distrarre la popolazione in relazione alle cause strutturali dei vari problemi che affliggono i roraimenses, strategia che è stata usata con maggiore intensità durante questo periodo di campagna elettorale”.
Prosegue la religiosa: “La Chiesa cattolica, in particolare attraverso la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile e diverse congregazioni religiose, organismi pastorali, parrocchie, sotto la guida di dom Mario da Silva, vescovo di Roraima, agisce sia nel Roraima e in altri luoghi per assistere migranti e rifugiati venezuelani: si tratta di un grande insieme di istituzioni e servizi, che offrono assistenza legale, il cibo, rifugio, protezione, assistenza nella documentazione, assistenza a donne e bambini”.