Pare finalmente ci sia un Def, ovvero un documento formale per il Parlamento. Poi ci sarà una legge di bilancio. C’è ancora tempo dunque, per un negoziato complicato, in Italia e con le istituzioni europee, e per le concrete misure. Perché oggi più che mai, in tempo di social e di like, un conto è il registro delle parole, un altro quello delle cose. Due tempi sempre più divaricati, come il caso drammatico del Ponte Morandi illustra in modo tangibile.
Perché oggi la politica, non solo in Italia, è campagna elettorale permanente, attraverso la fuorviante contabilità dei sondaggi.
Campagna permanente che oggi si applica all’Europa, guardando alle elezioni in calendario l’ultimo fine settimana di maggio. Questa è la cornice in cui collocare il dibattito in corso e le prospettive del nostro sistema politico.
Questa Europa non va. Ma quella europea è l’unica prospettiva possibile per tutti i paesi dell’Unione (Gran Bretagna compresa…). Oltre che per il futuro della democrazia.
Quaranta anni dopo le prime elezioni dirette, saranno le prime elezioni politiche per il Parlamento europeo perché, sia pure frammentate nella diversa offerta nei diversi Stati, per la prima volta sembra coagularsi anche sul livello europeo il cleavage (linea di frattura) popolo/élites, vecchio/nuovo, che caratterizza il dibattito negli Stati all’Unione.
Nel 1979, al riparo della cortina di ferro, le Comunità europee, eleggendo direttamente i parlamentari, dispiegavano tutte le loro potenzialità, sollevando un consenso generalizzato.
La trasformazione nel 1992 delle Comunità in Unione non mantiene le promesse. Dopo un allargamento troppo rapido, un progetto “costituzionale” è affondato da due referendum popolari nell’estate 2005. Dieci anni dopo, il 23 giugno 2016 un altro referendum popolare sancisce Brexit.
Il grande tema è dunque: perché il suffragio universale, quando è interpellato in termini ultimativi, si pronuncia “contro”? Il deficit di identità, la reazione alle formule politicamente corrette di un mainstream mercatista che sembra identificare l’Unione con le istituzioni global, lascia spazi crescenti a rivendicazioni identitarie. Si innesca un circuito vizioso, la crisi politica dell’Unione e della sua collocazione nel mondo.
La prosperità europea è strutturalmente e storicamente legata ad una peculiare identità religiosa, sociale, culturale e dunque imprenditoriale.
Rinunciare a definire l’identità europea se non in termini burocratici o mercatisti, genera il moltiplicarsi di surrogati, quel senso di smarrimento, culturale, ideale e dunque politico, che gli elettorati puntualmente certificano, ponendosi all’opposizione. Anche senza che le alternative siano realistiche, ma votandole comunque.
Bisogna voltare pagina. Solo così si può riparlare di costruzione europea, un processo necessario, senza alternative nel mondo di oggi e di domani. Decisivo per mantenere e sviluppare quella fragile creatura che è la democrazia popolare e sociale di mercato, ovvero una prospettiva di pace, di sviluppo, di benessere, per tutti.
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