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Paolo VI e il Vangelo: il cristianesimo non è facile, ma è felice

Leonardo Sapienza

Come San Paolo – di cui aveva preso il nome – Paolo VI poteva ripetere: “Tutto io faccio per il Vangelo” (1 Corinzi 9,23).

Nei dialoghi con Jean Guitton rifletteva: “Tocca al prete andare verso il popolo; perché il popolo non andrà al prete”. E per questo, da sacerdote, con gli studenti della Fuci; da arcivescovo, con la famosa “Missione” di Milano; e, infine, da Papa, ha cercato con le sue catechesi di annunciare il Vangelo con le sue alte e severe esigenze; senza addolcirlo!

“Fuoco è il Vangelo – diceva – che deve ardere e illuminare; tutti ad infiammarlo e a diffonderlo siamo chiamati. Che ciascuno di noi lo ricordi”.

Montini era convinto che “è inutile che il prete suoni la campana, nessuno la ascolta”. Per questo, il prete “deve tornare a farsi missionario, se vuole che il cristianesimo continui ad essere, a fermentare”.

Soprattutto nelle visite alle parrocchie romane, quando era solito predicare “a braccio”, come un semplice parroco, lasciando da parte il “noi” maestatico, riusciva a toccare il cuore dei fedeli.

In una società che vorrebbe un Vangelo più sereno, più facile, più comodo, lui ripeteva che “il Vangelo è realista, è pratico, è esigente di applicazioni concrete”.

Quando era di moda una interpretazione comoda, lassista, soggettiva; quando si parlava di “teologia della liberazione”, Paolo VI ripeteva che “occorre proclamare di nuovo alte le grandi parole del Vangelo, che, sole, hanno dato luce e pace agli uomini, in altri analoghi sconvolgimenti della storia”.

E per questo ha dovuto soffrire contestazioni anche feroci, e incomprensioni. Fino ad essere incompreso, e quasi completamente dimenticato.

La pratica del Vangelo è di molto superiore al variare delle civiltà e delle mode culturali.

“Cristo non ci ha indicato un programma facile, ma un programma difficile, arduo, pieno di sacrifici. È un Vangelo esigente, invadente dei nostri interessi, difficile. Non lo si può seguire se si è deboli, fiacchi, vili, se si antepongono gli interessi subalterni a quelli superiori dello spirito: il dovere, la giustizia, il bene comune”.
Al termine della vita, tracciando quasi un consuntivo del suo pontificato, Paolo VI poteva affermare di “aver conservato la fede”, e di aver fatto tutto quello che dipendeva da lui per annunciare solo Cristo e il suo Vangelo.

E ricordava: “Il cristianesimo non è facile, ma è felice. Non può appagarsi di giovani mediocri, non può essere vissuto in maniera qualunque; o lo si vive in pienezza, o lo si tradisce!”.