Vescovo Bresciani: “Ciò significa che riteniamo che, in quanto tale, abbia qualcosa da dire ai cristiani, e anche ai non cristiani, che vivono nella città e si prendono cura della sua condizione, del suo progresso sociale e civile. A lui, protettore della nostra città, chiediamo che ci aiuti a costruirla, nel nome di Dio, nella giustizia e nella pace.
E ciò porta a riflettere sul senso e sul tipo di presenza del cristiano nella costruzione della società, con i valori di cui è portatore. A me pare che la solennità del nostro martire patrono ci induca a riflettere su questo aspetto e che questa sia una urgenza per i cattolici oggi, poiché, da una parte, essi non possono ritenersi indifferenti ed estranei rispetto all’organizzazione della vita sociale e civile (a ciò li spinge l’amore del prossimo), e, dall’altra, non è pensabile che questo impegno dissolva o prescinda dalla loro identità cristiana, portandoli ad adeguarsi semplicemente alla cultura utilitaristica e individualistica che sembra dominare in gran parte la scena pubblica attuale con il conseguente pragmatismo che esclude ogni valore trascendente che dia un senso compiuto al nostro vivere insieme nella società.
Assistiamo a una tendenza a vivere la fede incarnandola in un ruolo di assistenza sociale e caritativa, non senza forti tendenze a deleghe improprie da parte degli organi istituzionali della società. L’azione della caritas certamente appartiene alla Chiesa, e non può mancare, ma non gli è unica e per certi aspetti neppure principale. Tale mentalità, dimentica, infatti, che il compito della Chiesa è portare il Vangelo della carità di Dio con tutto quello che ciò comporta a livello di relazioni, di promozione di ogni persona umana, di istituzioni sociali e civili, di visione del mondo e, ovviamente, di annuncio del Vangelo. Ma dimentica anche che è più importante impegnarsi a prevenire i mali che limitarsi a curarli una volta causati. Anche, e soprattutto di questo, deve darsi cura il cristiano.
Se, da una parte, il cristiano non può imporre nulla a nessuno in nome della fede che lo anima, dall’altra, come membro a tutti gli effetti della società in cui vive, non solo ha diritto di vivere privatamente la sua fede (e ciò al martire san Benedetto fu vietato), ma anche il dovere di portare nel dibattito pubblico la sua visione del mondo e delle corrette relazioni tra gli esseri umani, argomentandole per la loro intrinseca validità in vista di una migliore organizzazione della società e delle istituzioni civili, cercando di raccogliere su tali visioni il consenso richiesto in un ordinamento democratico.
La politica -cioè il governo della città- senza una visione ideale, non idealistica e non pragmatistica della società e senza motivazioni che non siano la semplice utilità degli individui o della parte predominante, perde la sua funzione primaria che è quella di promuovere il bene di tutti e la dignità di ognuno, rendendolo parte attiva della compagine sociale.
Dove possiamo attingere tali motivazioni? Non certo negli egoismi di parte, destinati inevitabilmente solo a dividere e contrapporre, ma in valori che vadano oltre l’io o l’interesse di parte, valori che non guardino solo al bene proprio, ma anche a quello altrui, valori che tendano ad includere anziché ad escludere, valori che permettano di spendersi per il bene comune. E questi sono i valori che devono ispirare il cristiano nel suo doveroso impegno per la città alla luce del Vangelo e che la Dottrina Sociale della Chiesa gli offre come guida.
Il cristiano non mette in discussione la laicità delle istituzioni pubbliche e dello stesso Stato. Esse non possono essere confessionali, nel senso che non spetta a loro imporre una scelta religiosa. Ma la vera laicità non può significare per il cristiano ritirarsi dal pubblico dibattito rinunciando a portare la propria visione del mondo che trova la sua ispirazione nel Vangelo. Egli deve, però, dare ragione della maggiore adeguatezza delle sue proposte per il bene della società nella sua globalità: questo è il compito e la responsabilità propria del laico cristiano nella società. Il cristiano non può limitarsi ad essere una specie di crocerossina della società. Va bene se fa la crocerossina, e nella necessità è chiamato a farla, ma è chiamato anche a pensare come combattere nella società ciò che provoca le ferite cui la crocerossina deve poi cercare di porre rimedio. È questa la forma alta della carità politica del cristiano (quella cui si riferiva san Paolo VI), una forma di carità più ampia e che raggiunge, attraverso una organizzazione diversa della società, un maggior numero di persone, idealmente tutte.
Nel nostro contesto occidentale facendo questo oggi non si rischia il martirio, come è toccato al nostro san Benedetto. Ciò però provoca quello che papa Francesco ha detto nella sua visita pastorale a Cesena: “Chi intende impegnarsi direttamente in politica deve prendere la propria croce e sapere che potrebbe essere un ‘martire’ a servizio di tutti” (1 ottobre 2017). Ciò è vero per tutti coloro che vogliono dedicarsi sinceramente al bene comune; lo è soprattutto per il cristiano che non vuol perdere la propria identità e combatte contro un esasperato pragmatismo egoistico dei diritti esclusivamente individuali, sempre più espressione di una logica dei forti contro i deboli, con tutte le conseguenze negative, personali e sociali, che ciò porta a con sé.
In quest’anno pastorale la nostra Chiesa diocesana sta riflettendo sulle relazioni, ciò non solo all’interno degli ambiti ecclesiali, ma a tutti i livelli: familiari, parrocchiali, sociali, economici e anche politici. Constatiamo che l’individualismo sempre più accentuato frammenta progressivamente anche la società e coloro che dovrebbero governarla: nell’individualismo si spegne la capacità di comprendere l’altro e di costruire non solo per sé, ma anche per l’altro; in una parola: si spegne l’amore. Il cristiano non può che operare per costruire nella società, attraverso la dedizione al bene comune, relazioni inclusive, perché così ha agito Gesù e perché questo è l’agire di Dio nel mondo. E in questo oggi, come sempre forse, può andare incontro al martirio dell’incomprensione e della minoranza culturale. Incomprensione, minoranza … è ciò che ha dovuto affrontare anche il nostro patrono, san Benedetto. Egli ha saputo resistere, in nome di valori superiori anche al proprio interesse personale, pagando di persona un prezzo molto alto al potente di turno, il quale, uccidendolo, ha cercato di farlo tacere, così come si è cercato di far tacere Gesù mettendolo in croce.
La cultura individualistica, per quanto possa apparire attraente, è estremamente fragile e pericolosa per l’individuo e per la società: apre il campo al soggettivismo e al positivismo (anche legislativo) e, anziché sostenere la libertà, alla fine la distrugge producendo l’effetto contrario a ciò che desiderava.
Dal nostro martire san Benedetto ci viene una indicazione per la nostra vita e per l’impegno per la nostra città: saper guardare a ciò che è bene non solo per sé, ma per la città, impegnandosi a costruirla avendo come meta il bene di tutti, sapendo resistere all’individualismo (il potente di turno) e impegnandosi a costruire relazioni sempre più profonde e intense che ci tolgano dall’inconcludente chiusura nella difesa solo di sé stessi e degli interessi di parte: ciò è fondamentale per costruire una società più coesa, giusta e pacifica.
San Paolo ci ricorda la regola fondamentale del cristiano: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4) e si impegni in ciò. Ciò è ancora e sempre un grande valore sociale e nutre una sana laicità nella quale non solo non viene meno lo spazio per il contributo proprio del cristiano, ma è richiesto.
Il nostro patrono ci ricorda tutto questo, mentre lo veneriamo e lo invochiamo appunto come patrono della nostra città e ispiratore delle nostre azioni. Egli ci assista in questo cammino.