Stefano De Martis
Il ricorso al termine “popolo” e ai suoi derivati è diventato così ossessivo e martellante nel discorso politico da risultare inquietante.
Soprattutto chi detiene il potere politico – proprio in quanto ha ricevuto il mandato popolare a governare – dovrebbe usare con parsimonia questa bellissima parola. Quando la si cita di continuo, in ogni contesto e a sostegno di ogni decisione, c’è qualcosa che non torna. Tanto più che nessuno mette in discussione il pieno diritto della maggioranza parlamentare – determinata dal voto degli elettori, ma anche dalle successive alleanze fra i partiti – a governare secondo le regole della Costituzione. Il sistematico appellarsi al popolo finisce quindi per apparire strumentale. Diventa populismo.
Beninteso, la questione non riguarda soltanto il nostro Paese e neanche soltanto i rapporti politici. Si colloca a un livello più esteso e radicale. Il che la rende ancora più allarmante. “State attenti”, ha detto il Papa ai giovani nell’incontro con i padri sinodali del 6 ottobre scorso, “oggi sono un po’ di moda i populismi, che non hanno niente a che vedere con ciò che è popolare”. “Popolare – ha spiegato Francesco – è la cultura del popolo, la cultura di ognuno dei vostri popoli che si esprime nell’arte, si esprime nella cultura, si esprime nella scienza del popolo, si esprime nella festa! Ogni popolo fa festa a suo modo. Questo è popolare. Ma il populismo è il contrario: è la chiusura di questo su un modello. Siamo chiusi, siamo noi soli. E quando siamo chiusi non si può andare avanti”.
Nelle parole del Papa c’è una chiave di lettura profonda della fase storica in cui ci troviamo e di quella connessione tra populismo e sovranismo – l’altro “ismo” di tendenza – che la caratterizza e che si manifesta in modo specifico e particolarmente negativo in relazione al tema epocale delle migrazioni. Con una contraddizione di fondo proprio nel campo delle forze che in vari Paesi e in vista delle elezioni europee del prossimo maggio si stanno muovendo all’insegna di questa sorta di “populismo sovranista”. Se ogni popolo è un’entità chiusa e deve pensare soltanto a difendere i propri confini e i propri interessi, quali intese ci potranno essere tra un popolo e l’altro? Quale idea d’Europa di intende realizzare? Non si tratta di discorsi teorici. In materia di migrazioni, per esempio, l’Italia è già entrata in rotta di collisione con gli Stati più sovranisti dell’Est Europa, che non a caso sono anche quelli in cui il populismo interno ha già stravolto gli equilibri costituzionali generando delle “democrazie illiberali”.
Razionalmente la contraddizione appare insanabile. Ma populismo e sovranismo nascono e prosperano proprio alimentando pulsioni irrazionali. “In tempi di crisi non funziona il discernimento”, osservava il Papa nell’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais nel gennaio dello scorso anno. E due mesi dopo, in un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit, rilevava che dietro il populismo c’è sempre “un messianismo”, mentre i “grandi leader” del dopoguerra sono stati capaci di “portare avanti il bene del Paese senza essere loro al centro. Senza essere messia”. Grandi leader che “hanno immaginato l’unità europea”, come “una fratellanza di tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali”. Non l’Europa dei popoli contro.