Di Pietro Pompei
Nelle memorie dell’infanzia, la luce fioca delle candele della lampadina della cucina, riversata sulla pietra del tavolo da un opaco piatto che evitava di disperderla, favoriva il formarsi delle ombre un po’ dovunque. Queste si adattavano agli umori e alle situazioni della famiglia e talvolta,come nella sera tra il giorno dei Santi e quello dei Morti, aumentavano la tristezza dei ricordi. Non trovo nell’arco dei giorni dell’anno, una sera più silenziosa di quella. Ci si ritrovava tutti insieme, purificati dal giorno di festa, a pregare per i tanti familiari defunti, ma ancora ben presenti nei ricordi e nelle foto distribuite in diverse parti. Le più recenti incassate sul vetro della “credenza”, altre poste sulla mensolina del Sacro Cuore, dove la nonna non faceva mai mancare un lume acceso durante il mese dei morti. Era scritta lì la storia della famiglia e quello che mancava te lo sentivi raccontare proprio in quella sera dei morti, ad aumentare la paura e la suggestione di una situazione particolare.
Hitchcock sarebbe stato un principiante rispetto a quella “suspance” che si respirava nel racconto degli anziani.
Spericolati come eravamo, non ci saremmo avventurati, in quella sera, ad uscire nel buio per tutto l’oro del mondo. Era quella la notte della “barca di Caronte” con tutto il suo carico di anime: racconto che ogni anno aumentava nel numero, dovendo, purtroppo, aggiungere i normali naufragi annuali. Giovanni Guidotti nel libro su S.Benedetto del Tronto, edito dal Circolo dei Sambenedettesi, riporta questa descrizione, presa dal volume dell’Allevi “Tra le rupi del Fiobbo”, del 1894: “ Non vi ha pescatore, per ardito che sia, che la notte dei Morti voglia lasciar la riva ed affidarsi alle onde. Gittando le reti in mare ei le ritroverebbe piene di teschi umani, o incontrerebbe la nera barca di Caronte, carica delle anime dei naufraghi, la quale verrebbe a dar di cozzo contro la paranza…”.
Se sciogli i ricordi e confronti i vari Caronti della storia umana, c’è da concludere che il nostro navigatore è figura ben diversa da quella filosofica dello Scetticismo a smascherare la stoltezza degli uomini, o da quella terribile, crudele e demoniaca di Dante, o, infine, da quella più addolcita del Rinascimento. I
l Caronte descritto dai nostri anziani, pur conservando la saggezza di chi vuole ammonire contro l’ingordigia, era la raffigurazione di una “pietas” che si poteva tradurre in un sentimento di partecipazione al dolore per tutti quei morti che non ebbero sepoltura e che per una notte almeno volevano riprendersi tutto il mare e farsi così ricordare dai vivi. Più che una barca vera e propria, era il passaggio di un lamento, lo stesso che sentii nelle invocazioni delle mamme e delle vedove dopo le tante disgrazie in mare con le quali siamo cresciuti. Di quella del Rodi, in cui naufragò anche una parte dei miei affetti familiari e di amicizia, mi è rimasto impresso il lamento delle mamme che chiedevano il recupero dei corpi. In parte fu possibile, ma altri andarono ad aumentare il numero nella grande “tomba” del mare.
Non basta il lamento annuale di Caronte per farci ricordare i tanti “fattisi mare nel mare”; o come scrive un anonimo poeta:”Recurdéte che lu mare e lu marenàre,/jè tott’one/ pore dope la mòrte”. Ed il Foscolo, giustamente asserisce l’importanza che “serbi un sasso il nome”. E’ importante tanto più oggi che le lampade al neon ci hanno tolto le ombre, sostituite da ridicole teste di zucca (halloween), così propagandate anche nelle nostre scuole. In questa atmosfera da New Age, il pensiero della morte, con la quale “giochiamo” ogni istante, potrebbe ridursi a un “Trick or treat?”, ossia “Scherzetto o dolcetto?”.
Pietro Pompei