Giovanna Pasqualin Traversa
Non è il Corano a volere la donna in una condizione di subalternità rispetto all’uomo, bensì le interpretazioni distorte che ne hanno dato nei secoli i giuristi musulmani, ispirate ad un pensiero “patriarcale” fondato più sul potere che sulla giustizia. A ribadirlo diverse volte e con energia è Azizah al-Hibri, docente emerita della T. C. William School of Law – University of Richmond, fondatrice e presidente della Karamah Foundation che si batte per le donne musulmane e i loro diritti. Intervenuta al seminario “Women, Faith and Culture” in corso al ministero degli Affari esteri per iniziativa della International Foundation for Interreligious and Intercultural Education (Ifiie), al-Hibri spiega: “Quasi 1500 anni fa il Sacro Corano ha affermato nel versetto 49:13 che Dio ci ha creati maschio e femmina e ci ha fatto divenire nazioni e tribù diverse in modo che ci conoscessimo l’un l’altro”. “Nel contesto coranico di questo versetto – chiarisce – ‘conoscersi’ significa comunicare, cooperare e celebrare le differenze l’uno dell’altro. Non significa subordinare altre culture, né prendere una visione suprematista di esse”. Tuttavia, poiché “i giuristi che ne hanno fatto l’esegesi subiscono nel subconscio l’influenza dalle loro culture e tradizioni locali”, la loro interpretazione dei versetti del Corano “ha qualche volta contraddetto i principi dell’islam”. Oggi, avverte al-Hibri,
“il mondo musulmano è frammentato, si è allontanato dalla lingua originaria, l’arabo, e molti musulmani hanno una comprensione superficiale dell’islam”.
La giurista parla dell’esistenza di “una norma islamica che afferma che la legge cambia in base al tempo, al luogo e alle esigenze della gente, deve insomma adattarsi alle nuove culture, ma – chiarisce – queste regola non si basa sui principi coranici”. Il problema è che
“oggi molti musulmani fanno fatica a distinguere tra principi coranici e pratiche sociali, pensano che anche queste ultime siano ispirate alla religione, perciò sacrosante”.
Un esempio “ne è la circoncisione femminile, nota come mutilazioni genitali femminili, erroneamente considerate una pratica prescritta dall’islam ma priva di fondamento giuridico nel Corano”. Si tratta, chiarisce al-Hibri, di una pratica esercitata per “diminuire la possibilità della donna di godere della propria sessualità anche dopo il matrimonio, mentre l’unico limite che l’islam pone alla sessualità è che essa si svolga nell’ambito della coppia sposata”. Del resto, prosegue, molte parole del Corano “non hanno il significato affidato loro dai giuristi. La cultura patriarcale colpisce spesso l’esegesi religiosa in materia di condizione della donna”, ma
“il pensiero patriarcale radicato nel potere, e non nella giustizia, è il peggiore nemico dell’islam”.
Tra i “miti” islamici da sfatare – la giurista parla proprio di “debunking” – quello delle 72 vergini promesse in Paradiso ai martiri. Il Corano, spiega, parla di “entità eteree e paradisiache” impiegando un termine “di genere neutro, né maschile né femminile”. Innegabile insomma “il ruolo svolto dalla cultura patriarcale nella sua interpretazione dei testi religiosi islamici”. Per ribaltarne “l’influenza radicata e pervasiva” occorre una rivoluzione educativo-culturale “che richiede l’impegno di tutti, a partire dai musulmani residenti nel mondo occidentale”. Anzitutto
il Corano “deve essere avvicinato nella sua lingua originale, l’arabo, che va insegnato ai bambini per immunizzarli dalle interpretazioni scorrette e manipolatorie della loro religione”.
E questa “educazione islamica” alla parità di genere “potrà incoraggiare le donne musulmane occidentali a ricoprire ruoli di leadership nelle loro società, come già avviene negli Usa, ma deve essere svolta da docenti musulmane accreditate e credibili”.